laR+ L’intervista

I giorni di Guido Rivoir

Lunedì al GranRex di Locarno, a 50 anni del golpe cileno, il ricordo si estende alla figura di riferimento del moto di solidarietà ticinese

Pastore valdese, antifascista, è morto nel febbraio del 2005
(Ti-Press)
9 settembre 2023
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“Sono molto spiacente di non poter essere presente alla riunione dei simpatizzanti dei democratici cileni perseguitati. Doveri di famiglia me lo impediscono. Non è la prima volta che un uomo simbolo del progresso, della legalità e della democrazia viene assassinato, e con lui la libertà e la miglior giustizia sociale [...] Ma la gente dimentica presto [...] Si dimentica Matteotti, la messa in scena dell’incendio del Reichstag, i mori di Franco, la pagliacciata del non intervento in Ispagna, si dimenticano le camere a gas. Troppo si dimentica, e noi che abbiamo visto da vicino il Fascismo cosiddetto bonaccione ma crudele, i roghi delle camere del lavoro, la guerra di Spagna prologo al massacro mondiale, dobbiamo gridare alto e forte: non dimenticate. Non dimenticate gli altri martiri, non dimenticate Allende, non dimenticate la reazione, assassina di popoli, ultimo fino ad oggi il Cile”.

Quando, nel 2018, Guido Rivoir fu scelto tra i Giusti di Lugano per il suo impegno a favore dei cileni perseguitati dalla dittatura militare dopo il colpo di stato dell’11 settembre 1973, lo storico Danilo Baratti, curatore con Patrizia Candolfi dell’autobiografia di Guido Rivoir ‘Le memorie di un valdese’ (Casagrande), riportò parole del religioso risalenti al novembre 1973, indirizzate al Comitato ticinese di sostegno alla resistenza cilena. Quell’invito a non dimenticare, esattamente come la salita al potere del sanguinario Pinochet, compiono cinquant’anni lunedì 11 settembre. In quel giorno, alle 18, il Gruppo culturale della sinistra del Locarnese e Valli in collaborazione con il Circolo del Cinema di Locarno, Babel e il Teatro Paravento, organizzano l’incontro ‘A mezzo secolo dal golpe cileno -1973-2023’, che al GranRex di Locarno ospita Baratti, l’ex magistrato Paolo Bernasconi e Miguel Angel Cienfuegos, profugo cileno, regista, attore nonché direttore del Paravento.

Segue, alle 20.30, presentato da Giancarlo De Bernardi, il film di Miguel Littin ‘Isola 10’, che racconta la deportazione di molti fedelissimi del presidente Allende nel campo di prigionia sull’Isola di Dawson, subito dopo il golpe. A Danilo Baratti, chi meglio di lui, abbiamo chiesto un ritratto della figura del pastore Rivoir, illuminante se messa a confronto con altri fenomeni di oppressione, anche recenti.

Danilo Baratti: come si è avvicinato alla vicenda cilena?

Avevo quasi vent’anni nel 1973 e come militante di sinistra seguivo come tutti ciò che stava accadendo in Cile, anche se fu soprattutto il colpo di Stato a rafforzare l’attenzione sulla questione cilena. Negli anni successivi, inoltre, rimasi in stretto contatto con alcuni cileni che avevano trovato rifugio in Ticino, persone che poi avremmo frequentato per lunghi anni.

In qualità di storico invece, come arriva a ‘Guido Rivoir. Le memorie di un valdese’?

All’interno del gruppo di lavoro della Fondazione Pellegrini Canevascini, di cui faccio parte, un giorno è arrivato il dattiloscritto dell’autobiografia di Guido Rivoir, per la pubblicazione della quale mi sono subito pronunciato a favore benché si trattasse di un tema un po’ lontano da quelli solitamente trattati nella nostra collana di storia del movimento operaio della Svizzera italiana. Dopo qualche discussione, con mia moglie Patrizia Candolfi ho assunto la cura della pubblicazione. Da quel momento in poi si è ravvivato ulteriormente il contatto con la vicenda cilena.

Devo anche dire che occupandoci della sua vita, ci siamo immersi anche nella storia valdese e in quella dell’Uruguay, dove Rivoir fece la sua prima esperienza pastorale, elemento non marginale nel suo prendere per mano l’Azione Posti Liberi: parlava spagnolo, aveva contatti con l’America Latina, i sette anni in Uruguay a organizzare colonie valdesi in una situazione non facile avevano sviluppato una forte capacità organizzativa che gli sarebbe servita decenni più tardi per dirigere in pieno l’Azione Posti Liberi.

Chi era Guido Rivoir?

Frequentavo gli ambienti della sinistra ticinese, e quindi mi è capitato di incontrarlo ma non gli ho mai parlato. Dal punto di vista pubblico, vista la carica predicatore evangelico in tv, e più tardi di granconsigliere, non si poteva non conoscerlo, e l’autobiografia e la ricerca effettuata tutt’intorno me lo hanno reso più vicino. Guido Rivoir arriva un poco casualmente a essere il volto pubblico dell’Azione Posti liberi nel moto di solidarietà con i profughi cileni. L’iniziativa era stata presa dall’abate Cornelius Koch, al tempo parroco di Vogorno, e da un gruppo di militanti soprattutto basilesi che faceva capo all’Associazione Longo Maï, che ha creato una rete di cooperative agricole formative e autosufficienti presenti oggi in mezza Europa, la più recente è nata pochi anni fa in Ucraina. Da lì era partita l’idea di mettere a disposizione posti per rifugiati cileni e di fare pressione sul Consiglio federale affinché li accogliesse. Koch entrò in aspro conflitto con il consigliere federale Furgler e preferì mettersi in secondo piano. La scelta di coordinatore del gruppo ticinese cadde su Guido Rivoir.

Malgrado la casualità, Rivoir aveva tutte le caratteristiche che lo rendevano la persona ideale per questo ruolo: il legame con l’America Latina e la sua lingua, come ho già detto, l’antico suo antifascismo, maturato durante gli anni di studi a Firenze, dove aveva visto in azione le squadracce fasciste, una radice antifascista rafforzatasi durante il periodo del Regime, quando era pastore nelle valli valdesi. Nel colpo di Stato in Cile, lo disse lui stesso, vide il risorgere di un nuovo fascismo. Delle doti organizzative ho detto. Aggiungo la dimensione di uomo di religione, quella spinta alla solidarietà fraterna che gli veniva dal suo essere pastore evangelico, elemento non secondario.

L’anniversario del golpe cileno cade nel pieno del conflitto russo-ucraino. Guardando al moto di accoglienza ticinese verso i profughi ucraini, vede affinità con quanto vissuto cinquant’anni fa?

Non ne vedo. Semmai vedo molte differenze, non tanto in riferimento all’azione di Rivoir quanto all’atteggiamento delle autorità svizzere. Nel caso dei profughi cileni la chiusura fu forte, ci vollero sforzi notevoli per portare le autorità federali a essere meno restrittive di fronte alla loro richiesta di asilo. La reazione di fronte agli ucraini mi ha ricordato piuttosto l’apertura verso i profughi ungheresi dopo i fatti del 1956. Va detto che negli anni 70 buona parte della popolazione svizzera condivideva una solidarietà diffusa e non di natura strettamente politica, perché l’Azione Posti Liberi e la generale solidarietà nei confronti del Cile coinvolse molti ambienti diversi. Addirittura il Consiglio di Stato e il Parlamento ticinesi manifestarono una partecipazione fattiva, i granconsiglieri versando la propria diaria all’Associazione Posti Liberi e il Consiglio di Stato stanziando una cifra che portasse il totale a 10mila franchi.

Oggi, guardando alle procedure di asilo, vedo il ritorno di un diffuso atteggiamento di chiusura verso chi chiede accoglienza, e non mi riferisco alla parentesi ucraina, che ha caratteristiche molto particolari.

Dipende dal fatto che oggi manca un Guido Rivoir?

Non credo sia una questione di persone, per quanto importante la sua figura sia stata, perché ci sono persone che si spendono in questi termini. Credo piuttosto che sia il clima generale a rendere impossibile la semplice ripetizione di una situazione come quella.