Storia del nuovo Ct italiano, che sostituisce sulla panchina azzurra Roberto Mancini, passato alla guida della nazionale dell’Arabia Saudita
Non è stata breve la strada che ha portato Luciano Spalletti al rango di venerato maestro. La definizione che lo scrittore Alberto Arbasino riservava alle figure pubbliche che non hanno più bisogno di dimostrare niente, e che possono godersi l’unanime considerazione del pubblico, pure in un paese in cui nessuno è mai d’accordo su niente.
Essere un Venerato Maestro è spesso il pre-requisito per diventare CT della Nazionale, l’incarico che è stato affidato a Spalletti qualche giorno fa, dopo le improvvise dimissioni di Roberto Mancini. Una nomina arrivata praticamente a furor di popolo: Luciano Spalletti era, insieme ad Antonio Conte, l’allenatore dal curriculum migliore, e dopo lo storico Scudetto vinto con il Napoli lo scorso anno meritava questa specie di oscar alla carriera. Perché così, in fondo, viene considerato l’incarico di allenatore della Nazionale.
È strano da pensare oggi, visto che appena un anno fa Spalletti sembrava un allenatore irrealizzato e vicino al tramonto. Con lui in panchina il Napoli aveva chiuso una stagione anonima, che aveva gettato un’ombra di incompiutezza sul grande ciclo di Mertens, Insigne, Koulibaly; ma anche sul valore di Spalletti, che aveva confermato i suoi pregi e difetti: un allenatore che non sbaglia davvero le stagioni, ma incapace di portare la nave in porto “col vessillo” - cioè di vincere. Troppo pazzo, volubile e poco rassicurante per potercela fare. I vincenti sono calmi ed eleganti: Spalletti non è né l’uno né l’altro.
Nessuno si aspettava la vittoria del Napoli lo scorso anno, che aveva rinnovato il proprio undici con due giocatori esotici come Kim e Kvaratskhelia. Un Napoli strutturato attorno alla solita identità di squadra tecnica e palleggiatrice, che ha giocato un calcio leggero ma dominante, barocco ed efficacissimo. Nel momento meno prevedibile, nel contesto più difficile, Spalletti è riuscito a togliersi di dosso l’etichetta di perdente, di eterno secondo (cinque secondi posti sulla panchina della Roma).
È stato l’allenatore più anziano a vincere la Serie A, ma è sembrato anche l’allenatore italiano più all’avanguardia. Il suo Napoli era una squadra fluida col pallone e dura senza, capace di esaltare le individualità senza intaccare l’armonia collettiva. Mentre il calcio di Antonio Conte, con la sua rigidità, sembra in parte già invecchiato, quello di Spalletti pare ancora fresco e perfettamente aggiornato, nella ricerca del miglior compromesso possibile fra ordine e caos, che è il Sacro Graal del calcio contemporaneo.
L’acume tattico di Spalletti è stato spesso sottovalutato, passato in secondo piano rispetto ai suoi aforismi pazzi, alla sua espressività estrema. Eppure Spalletti rappresenta al meglio una delle migliori caratteristiche della scuola tattica italiana, quella del pragmatismo. Un concetto spesso confuso col difensivismo, e che è invece la capacità di integrare gli strumenti più efficaci possibili, in base al contesto e alla rosa a disposizione.
Spalletti lo ha sempre fatto, a partire da quando alla Roma inventò Francesco Totti da “falso nove” («È stato come avvicinare la volpe al pollaio» spiegò). Totti era un trequartista, un rifinitore, mentre da prima punta arrivò a vincere la Scarpa d’oro. Spalletti non ebbe l’intuizione in astratto ma nel tentativo di risolvere un problema contingente, e cioè affrontare una partita di campionato contro la Sampdoria senza nessuno degli attaccanti in rosa. Spalletti è refrattario a un calcio troppo pre-ordinato. Non è ideologico e non gli piacciono le squadre troppo meccaniche. Mira soprattutto a usare la memoria automatica del corpo, uno dei grandi misteri dello sport. I suoi metodi d’allenamento prevedono «Ripetere le situazioni di gioco in campo, undici contro undici, come la domenica». Secondo lui «Un pilota di Formula Uno mica sta in poltrona col solo il volante in mano, mette a punto la macchina girando in pista come nei GranPremi».
Durante l’ultima stagione, parlando del suo Napoli geniale, ha provato a riformulare parte del nostro linguaggio calcistico: «Gli spazi non sono tra le linee ma tra i calciatori avversari. Gli spazi sono dove li creano gli altri e bisogna saperli interpretare. Bisogna saperli vedere e usare», ha detto con la caratteristica sintassi pesante. Concetti che abbracciano l’idea di un calcio ormai liquido, basato sull’interpretazione situazionale dei giocatori. Queste idee rappresentano la prosecuzione ideale del percorso che la Nazionale italiana ha iniziato con Mancini, e che ha fruttato una vittoria all’Europeo. Un ciclo poi finito male, con la mancata qualificazione ai Mondiali e tensioni sempre crescenti. Un ciclo che però ha avuto il merito di cambiare pelle agli Azzurri.
Mancini ha dimostrato che l’Italia può vincere anche attraverso principi di gioco offensivi e accettando i rischi conseguenti. Ha saputo vincere dominando spesso il contesto, con possesso palleggiato e pressing alto. Anche in quel caso è stata una scelta pragmatica: il gioco ideale per una squadra con Jorginho, Verratti e Insigne. Con Spalletti l’Italia riprenderà questa via maestra, possibilmente con la freschezza che è mancata alle sue ultime versioni, quelle di una squadra sempre più stanca e arrugginita. Se calcisticamente il passaggio da Mancini a Spalletti sarà nel segno della continuità, è invece difficile trovare due esseri umani più differenti, con un approccio più diverso alla professione. Mancini sembrava nato per fare il ct dell’Italia. Scaltro, elegante e perfettamente a suo agio nel ruolo più politico che richiede la Nazionale. Un uomo che non pare soffrire la pressione. Il vago distacco con cui vive il mestiere viene probabilmente dalla sicurezza nei propri mezzi. Qualcosa che è riuscito anche a trasmettere alla squadra, che aveva raccolto in macerie dopo la sconfitta nello spareggio contro la Svezia. Fare il selezionatore pareva aver aggiustato anche alcuni suoi difetti, una certa spigolosità, un gioco non sempre brillante.
Spalletti sembra invece vivere il lavoro con un’intensità ai limiti del masochismo. Un allenatore che talvolta ama lo scontro, il litigio anche un po’ fine a sé stesso. Un allenatore con ben poca arte della diplomazia, che può impelagarsi nel dibattito per poi uscirsene con qualche frase leggendaria: «Uomini forti, destini forti; uomini deboli, destini deboli. Non c’è altra strada». È difficile immaginarlo in un ruolo così istituzionale, lui che nella sua carriera è sembrato sempre un tantino fuori posto. Non certo per mancanza di bravura, ma per un anti-conformismo che l’ha reso col tempo un personaggio di culto.
Spalletti da Certaldo, figlio del guardiacaccia, che indossa completi un tantino troppo stretti e scarpe troppo stravaganti. Spalletti con troppe collane al collo e troppe rughe sulla fronte. Spalletti che inveisce contro un cronista che gli chiede delle sue emozioni per un pari subito nel recupero: «Ma che emozione, ma che emozione, ma che c**** dice». Spalletti toscano cupo e dalla battuta un po’ aggressiva. Spalletti figura di un’Italia rurale, che un giorno a Trigoria abbatté un albero sostituendosi al giardiniere. Uomo che ama la campagna, che possiede un agriturismo dai prezzi popolari e che sui social posta i video con la sua papera Biancaneve. Spalletti che in conferenza parla delle galline del suo vicino (“Il Cioni”) e che canta Nino D’Angelo nei festeggiamenti per lo Scudetto. Spalletti che se ne va in giro su una Panda che un paio di anni fa gli viene rubata. Quando qualche mese dopo gli chiedono cosa farebbe se gli venisse riportata l’auto, dice: «Bisognerebbe vedere in che stato ce la ridanno, quanti chilometri hanno fatto, come sono le gomme. E se non ci sono i cd di Pino Daniele non la riprendo!» Spalletti sempre con la giacca della tuta aperta, le collane in vista, il petto grosso da uomo con cui è meglio non litigare.
Se Mancini appartiene all’aristocrazia calcistica italiana, con un passato da fuoriclasse e il ciuffo sempre al giusto livello di disordine, Spalletti viene dal proletariato. «Ero scarso da giocatore e da allenatore, poi mi sono fatto il mazzo e mi è capitato di vincere contro squadre e allenatori più forti», una frase che suona come il suo manifesto. La sua è stata una carriera di lunga gavetta e che sembrava aver bruciato in fretta. Con la Roma, dal 2005 al 2009, sembrava aver esaurito la sua traiettoria di innovatore. Dopo quell’esperienza è finito in Russia, dove ha vinto il campionato e dove ci ha regalato foto iconiche di lui che festeggia a petto nudo sotto la neve. Il suo ritorno in Italia era stato un tantino minore, pur comunque in mezzo a ottimi risultati, fino al suo secondo anno capolavoro al Napoli.
Con la Nazionale, Mancini è riuscito in un lavoro vincente e rivoluzionario, ma non è mai stato davvero troppo amato, anche a prescindere dalla mancata qualificazione al Mondiale. Il suo carisma iper-professionale non ha mai attecchito troppo nell’opinione pubblica. Spalletti sembra invece già aver instaurato una certa empatia col pubblico italiano.
Quasi tutti lo amano, tutti lo rispettano. Persino a Roma, dove ha litigato con la leggenda Totti, ha lasciato un ricordo per lo più positivo. In lui gli italiani possono facilmente riconoscersi, per questo carattere schietto e duro, ma anche ironico e saggio. Con Spalletti l’Italia spera di riuscire a qualificarsi al prossimo Europeo, e magari di tornare a un Mondiale da cui manca ormai dal 2014. La strada sembra lunga, ma anche piena di divertimento.