Il 4 agosto ricorrono i cento anni della nascita del maestro e scrittore di Cavergno, che morì nel 1979. Lo ricordiamo col figlio Alessandro Martini
Nelle mani è scritta la storia dell’uomo. E le mani di Plinio Martini racconterebbero ancora oggi di un uomo che scriveva, insegnava, pescava, che andava in montagna e in un primo tempo raccoglieva e poi fotografava piante e fiori; andava in osteria per dibattere e discutere con fervore. Mani cui il maestro non ha mai fatto mancare il lavoro pratico, ne aveva gran bisogno, come costruire la pergola in legno e le ringhiere della casa di famiglia, a Foroglio.
Era un uomo dallo sguardo franco e curioso, mosso da un’intelligenza vivace e un intenso impegno civile, ma era anche pervaso da una grande inquietudine spirituale. Sempre dalla parte della sua valle, Martini si indignava per l’incoerenza dilagante della politica e della Chiesa, ma aveva una sconfinata sensibilità per “l’uomo, la sua fatica, le sue sofferenze e la miseria di una volta”.
Il prossimo 4 agosto, dell’autore de ‘Il fondo del sacco’ ricorrono i cento anni dalla nascita. In occasione dell’anniversario, con Alessandro Martini, davanti a un caffè, tento di farne un ritratto, senza alcuna pretesa di compiutezza. Il cognome non lascia spazio a dubbi: il mio interlocutore è il primogenito di Plinio Martini, nato nel 1947 a Cavergno, partito negli anni giovanili per studiare all’Università di Friburgo con Padre Pozzi; dove, in seguito, per ventuno anni (dal 1989) è stato ordinario di Letteratura italiana.
Con il professore emerito, metto, per quanto possibile, da parte la figura letteraria di Plinio Martini, il peso specifico delle opere e la cifra stilistica che ancora oggi ne fanno uno degli autori più letti e amati (non solo nella Svizzera italiana), per parlare dell’uomo. Testimone spesso scomodo del suo tempo, Martini con sguardo lucido, scabro e diretto ha saputo farsi interprete di un contesto che oggi possiamo rivivere “solo” (l’avverbio è eufemistico) leggendo.
Prima di lasciare spazio al fluire dei ricordi, non si può non elencare le opere dello scrittore cavergnese, partendo dagli esordi in versi: ‘Paese così’ (1951) e ‘Diario forse d’amore’ (1953). Dopo diverso tempo diede alle stampe i due romanzi di maggior successo – testimoni ne sono le varie traduzioni – ‘Il fondo del sacco’ (1970) e ‘Requiem per zia Domenica’ (1976). Scrisse anche alcuni racconti: ‘Storia di un camoscio’ (1956) ‘Acchiappamosche e il maiale’ (1962) e tornò quindi alla poesia con ‘Le catene’ (1975). Nel corso della sua vita, Plinio fu autore di numerosi articoli pubblicati sulla stampa, soprattutto in difesa del patrimonio storico e civile della Vallemaggia, raccolti in particolare in ‘Nessuno ha pregato per noi’, pubblicato postumo nel 1999. Postumo è anche il romanzo incompiuto ‘Corona dei cristiani’ (1993).
® Archivio della famiglia di Plinio Martini
A Gerusalemme, nel 1965
Cavergno, luogo natio del maestro, sta nel cuneo formato dalla confluenza del fiume Bavona con il fiume Maggia, a Bignasco. Lungo il fiume Bavona, che nasce dal ghiacciaio del Cavagnöö, «da bambino accompagnavo mio padre a pescare. Credo sia uno dei primi ricordi che ho di lui, ancora prima di avere l’avventura-sventura di essere suo allievo alle elementari», rammenta sorridendo il professore. «Lui pescava e io mi annoiavo. E pescando mi intratteneva con i suoi discorsi. Dentro e fuori scuola, papà insegnava. Sempre; anche all’osteria».
Plinio Martini nasce di sabato, il 4 agosto 1923: era il secondogenito di una figliolanza di otto maschi, messi al mondo da Adeodato e Maria, nata Balli. «Mio nonno era il panettiere del paese. Il pane sulla tavola non era mai mancato e per questo, quella di mio papà, non era una famiglia povera». Prima di seguire le orme del fratello maggiore Giuseppe nell’insegnamento, da ragazzo anche Plinio andava sugli alpi come tanti suoi compaesani e sapeva perciò come la loro vita potesse essere misera.
Da Cavergno partì per andare ad Ascona, al Collegio Papio; frequentò quindi la scuola magistrale di Locarno, dove ottenne la patente di maestro nel 1942. Tornò al paese, dove insegnò (si dice fosse piuttosto severo) alle scuole elementari per ventisette anni e per sette ancora a Cevio, alle medie. Nel frattempo, era il ’45, sposò Maria Del Ponte con cui ebbe Alessandro, Luca e Lorenzo. «Non lasciò mai Cavergno. Papà si sentì sempre contadino fra i contadini, in un momento in cui questi cambiavano mestiere. Da qui l’attaccamento a un contesto che svaniva e la nostalgia per una condizione che andava scomparendo».
Plinio Martini morì per malattia, due giorni dopo aver compiuto 56 anni, nel 1979. Allora, il suo primogenito era solo un trentenne: «Subito mi sono ritrovato a mettere mano fra le sue carte e curare ‘Delle streghe e altro’, pubblicato dall’editore Dadò poco dopo la morte. A noi figli, papà ha lasciato un’eredità forte, a ciascuno la propria. Per me, è diventato uno degli oggetti della mia ricerca in ambito universitario» e ancora prima un modello di vita: «Lo vedevo scrivere e leggere e per me la vita era quella».
® Archivio della famiglia di Plinio Martini
A pesca
In casa, «papà era spesso corrucciato; non con noi, lo era per i pensieri che gli passavano per la testa. Ci era molto vicino per ciò che riguardava i principi morali, ma lontano per le cose concrete… La nostra famiglia era molto tradizionale in questo senso: la mamma pensava a tutte le cose di casa, lui si occupava del resto». Fuori, «era un uomo estremamente aperto verso gli altri, a cominciare dalla gente di paese. Usava spesso dire (e scrivere) la frase “ci siamo incontrati, siamo diventati subito amici”. L’adesione all’altro era impressionante e questo lo rendeva una figura interessante. Era molto ascoltato, ma anche parecchio criticato, perché si è sempre espresso con grande libertà». Basti pensare che nel suo ultimo anno di vita affermava duramente che “siamo un popolo di camerieri che va a votare con la schiena curva. Una terra dove l’unica libertà garantita è quella del commercio. Il diritto di parlare e di scrivere rimane unicamente in rapporto all’autorità costituita: altrimenti si è messi da parte”.
Un uomo che non passava quindi inosservato. A Foroglio, d’estate, scriveva volentieri davanti a casa, dove la gente passava. Non si isolava mai, neppure a casa, dove aveva uno studio che però non usava: preferiva accomodarsi in sala con la macchina da scrivere e in qualche modo partecipare alla vita familiare». E di quel che andava scrivendo parlava volentieri con tutti. La propensione all’incontro è testimoniata dalla sua partecipazione alla vita della comunità, «in chiesa e all’osteria, nella quale per altro si ritrovavano a discutere solo gli uomini». L’impegno civile si tradusse anche nell’assunzione di diversi ruoli nella collettività, cui non veniva mai meno: nel 1956 contribuì a fondare la Pro Vallemaggia (di cui fu presidente); nel 1966 divenne giudice di pace della Rovana («era un suo modo di entrare in contatto con i problemi reali della popolazione»); dal ’68 fece parte del comitato della Federazione ticinese per la pesca e l’acquicoltura e fu presidente della società dei pescatori valmaggesi, lavorando per la semina di fiumi e laghetti e battendosi per i deflussi minimi. Si mise al servizio della sua terra impegnandosi per «il rilancio della vita in valle», che a quei tempi subiva gli effetti dello spopolamento e dello sfruttamento delle risorse idriche.
Scartabellando l’archivio del ‘Giornale del popolo’ (GdP), in alcune edizioni saltano agli occhi i trafiletti che informavano di conferenze e incontri pubblici tenuti a più riprese da Martini, in particolare a tema religioso: «Sin dall’inizio, nella visione di papà, quella sua religione – lo scriveva a chiare lettere nel diario – è la discussione più importante da fare». Il suo cammino nella fede fu però tortuoso, soprattutto nei confronti dell’istituzione ecclesiale, che nei suoi ultimi anni voleva abbandonare, come aveva fatto con il Partito conservatore, per poi andare fra le file di quello socialista. Provava «una sorta di repulsione che probabilmente nasceva dall’incongruenza ravvisata fra i propositi di notevole apertura della Chiesa (espressi nel Concilio vaticano II e nelle encicliche sociali) e le riforme effettive». Insomma, la religione per Martini era materia continua di discussione. «Ma in quella che è stata una vera a propria crisi religiosa è rimasta salda la fede nel Creatore, confortata dalla sua passione botanica, come ben osservò il suo grande amico Vincenzo Snider».
® Archivio della famiglia di Plinio Martini
Con Vincenzo Snider, nel 1961
Fenoglio, Gadda, Porta, Manzoni, sono i nomi che il maestro citava come suoi autori di riferimento. Oggi potremmo aggiungere Pavese e Ramuz. «Da giovane, mio padre fu un lettore assiduo, si fece però più selettivo negli anni in cui scrisse i romanzi. Nella sua biblioteca i volumi postillati sono un centinaio. Non leggevamo assieme, ma discutevamo delle letture fatte», rammenta il figlio.
“Scrivo adagio”, disse Plinio Martini in un’intervista alla fine degli anni Settanta, aggiungendo che il lavoro di rilettura, correzione e revisione era continuo. La vena per la scrittura si manifesta attorno ai vent’anni, «prima ancora della pubblicazione di testi poetici (numerosi quelli editi nella pagina letteraria del GdP sin dal 1950; ndr), appena finita la scuola magistrale, scrive di getto un racconto (‘Com’era bello di giugno a Roseto’, ora edito da Casagrande; ndr). Poi per diverso tempo non scrive più. Sono i primi anni di un’attività che non lo soddisfa, lontana dagli interessi letterari che avrebbe voluto coltivare andando all’università, cui aveva rinunciato per sposarsi… In quegli anni, credo che mio padre abbia attraversato un momento di vera e propria depressione». La scrittura in prosa rifiorisce nella seconda parte degli anni Cinquanta, quando Martini iniziò a impegnarsi per la difesa delle acque della Vallemaggia contro lo sfruttamento idroelettrico: il greto del fiume secco lungo gran parte della valle e la sua mutata fisionomia mossero il suo dissenso espresso nei versi di ‘Lamento per la mia valle’ (GdP, 3 ottobre 1956). «Capì però presto che per essere ascoltato doveva trasferire la sua protesta su un altro piano, cambiando registro».
Se da un lato è chiara l’esigenza di esprimere anche per iscritto il suo disappunto su temi pubblici, meno evidenti sono le ragioni dell’afflato letterario di Martini: «Penso ci sia stato un momento di introspezione, che portò papà a riflettere sulla sua figura di maestro, per cui era riconosciuto come autorità, anche dal punto di vista morale. È probabile però che questo non gli bastasse» e con la scoperta, verso i trent’anni, della poesia che la scuola non passava – soprattutto Ungaretti, ma anche Montale, Cardarelli, Saba –, «mio padre trovò la sua strada, all’inizio francamente imitando quelle vette poetiche per lui nuove».
Nell’anno del centenario è stato istituito un comitato che si è occupato di curare un programma nutrito di attività, molto varie fra loro, per ricordare Plinio Martini. Le informazioni complete sono consultabili al sito www.pliniomartini.ch.