Unica nella voce, nella follia, nella denuncia, nella bellezza, nel calvario. Aveva 56 anni, nel 2014 fu a Estival Jazz. Il ricordo di Jacky Marti
Era l’11 luglio del 2014. Mendrisio aveva già applaudito Ibrahim Maalouf, gli Animals con Eric Burdon e tanti altri; Piazza della Riforma, tra una sera e l’altra, aveva fatto lo stesso con i Morcheeba, ma si era scaldata assai di più con gli Snarky Puppy nell’anno del primo Grammy, e con Gregory Porter, stella nascente del jazz, un Grammy per l’album dell’anno e un altro all’eleganza. Sinéad O’Connor era salita quando il lago era già buio; sul viso tirato c’era ancora la devastante bellezza del 1990, quando aveva portato al successo una canzone inizialmente non indimenticabile. Prince, ‘Nothing Compares 2 U’, l’aveva scritta per l’album di debutto dei da lui fondati The Family, ma nell’abito soul originario quella canzone non se l’era filata nessuno.
Era il 1985, e cinque anni più tardi la già affermata giovane irlandese cresciuta a pane e Dylan, Bowie, Marley e Pretenders ne avrebbe fatto un classico, cantandola pensando al complesso rapporto con la madre che non c’era più e portando la sofferenza del rapporto fin dentro il video, che è il suo viso e poco più, tra una sala di posa ed esterni parigini. Forse ‘Nothing Compares 2 U’ non era un altro dei capolavori di Prince e non lo è nemmeno ora, ma lo è diventato grazie a Sinéad O’Connor, la prima donna premiata da MTV per il Video dell’anno, per quel canto che pare strazio e invece è dolcezza, ma vale anche il percorso contrario. Un canto che le sarebbe rimasto addosso come un tatuaggio, o come una bomba a orologeria.
Keystone
Gurtenfestival, 1998
L’11 luglio del 2014, la pelle era già una carta geografica del suo percorso spirituale, tatuato sulle mani, sul petto, sulla testa, in tutto il visibile non coperto dal nero di una mise da rocker con riferimenti religiosi non immediatamente distinguibili e dagli occhiali neri. Sinéad aveva aperto con ‘Queen of Denmark’, cover di John Grant (“Volevo cambiare il mondo, ma non riuscivo nemmeno a cambiarmi la biancheria intima”, l’incipit). La voce era quella, di certo meno angelica un quarto di secolo dopo, ma sempre di quel ‘barcollante’ che in epoca di belcanto internazionale aveva fatto di lei un’imperfetta unicità, un marchio di fabbrica non prefabbricato, in barba a coloro i/le quali si costruiscono una voce alternativa per essere alternativi.
Tra le cose più autobiografiche, a Lugano cantò ‘The Voice of My Doctor’, da un album che sarebbe uscito di lì a poco, e lo smarrimento di quel testo è quanto ricordiamo insieme a ‘Reason With Me’, storia di un tossicodipendente che si vende il rosario della nonna e tenta di rifarsi una vita. L’esibizione di quella sera – con tutti gli alti e bassi di chi era già stato un paio di volte in fondo al baratro, si era venduto ogni rosario possibile e ora provava a tornare a livello del suolo – fu per noi la sintesi di ciò che sarebbe potuta essere Sinéad O’Connor sempre. Non mancò ‘Nothing Compares 2 U’, che per Lugano fu magia pura, e magari per lei no.
Gianni Bardelli
Lugano, 11 luglio 2014 (con Jacky Marti)
«Non so quando questo sia avvenuto – ci racconta Jacky Marti, al telefono da una spiaggia turca, strappato alle vacanze post-Estival 2023 – ma non la cantava più con la stessa voglia di un tempo». Fu subito dopo Estival, perché non la sentiva più sua e non avrebbe più potuto dare emozioni al brano. Lo aveva annunciato su Facebook, dice la storia. «La prima reazione – continua Jacky – è che non sono sorpreso. La seconda è che forse la sua anima tormentata ha trovato la pace. Io non ricordo una persona dalla vita più difficile della sua, sin dall’infanzia. Sinéad O’Connor era una ribelle che tradiva un’immensa fragilità».
A Lugano, quella sera, qualche preoccupazione c’era: «Non tanto per quanto sarebbe accaduto sul palco, e non perché tanto tempo prima avesse strappato l’immagine del Papa in diretta tv, denunciando comunque il problema della pedofilia nel mondo ecclesiastico ben prima di tanti altri. Temevo piuttosto un colpo di testa, personale, al di fuori dello spettacolo. E invece ho trovato una donna di una gentilezza infinita. Sì, un po’ strana, ma una bella persona». L’11 luglio di quell’anno, insomma, Sinéad non insultò nessuno, anche se quella era una delle voci che giravano. «Ricordo di avere passeggiato con lei sul lungolago e poi di averla portata al Parco Ciani. Mi fissava negli occhi e io non reggevo lo sguardo, penetrante ma non cattivo. Per usare una metafora, ho avuto l’impressione che se il vento fosse soffiato troppo forte, l’avrebbe fatta cadere a terra».
Verso la duecentesima pagina de ‘Il colore degli incontri’, libro in cui Jacky Marti raccoglie foto, autografi e parole delle stelle invitate e incontrate nel suo Estival Jazz, c’è il capitolo ‘sacerdotesse’. Sinéad O’Connor è insieme a Patti Smith, che è nel libro per via di un concerto al Palacongressi. Della prima, Jacky scrive: “Occhi ampi, voce acuta e a tratti incerta, aspetto androgino, allure malinconica (…) l’abbiamo vista rianimarsi solo quando un giornalista che la stava intervistando nel backstage la ha chiesto di raccontare il clamoroso episodio di cui era stata protagonista nell’ottobre del 1992”. Sinéad si scusò per il suo gesto, ma non per quanto aveva affermato: “È vero, mi sono scusata – disse prima di salire sul palco di Estival – ma non mi sono mai pentita. Non provo vergogna per quanto ho detto, sono altri che dovrebbero vergognarsi”.
La carriera di Sinéad O’Connor subisce il primo clamoroso e più importante stop il 3 ottobre del 1992, al Saturday Night Live; canta a cappella ‘War’ di Bob Marley in accezione non bellica, la guerra nel titolo è per lei quella contro gli abusi sessuali della Chiesa cattolica. Se nelle prove l’artista aveva stracciato davanti alla telecamera l’immagine di un rifugiato, in diretta tv la foto è quella di Papa Giovanni Paolo II. “Fight the real enemy”, dice Sinéad guardando in camera, combatti il vero nemico. Nove anni più tardi, lo stesso pontefice riconoscerà che qualcosa nella sua Chiesa non andava, quanto a bambini; vent’anni dopo, il documentario ‘Nothing Compares’, presentato al Sundance Film Festival del 2022, analizzerà il periodo 1987-1993 dell’artista, parlando della sua lotta – al netto della follia – come proto #MeToo.
Abbiamo provato a mettere la musica prima del resto. Sinéad O’Connor – che duettò con Peter Gabriel in ‘Blood Of Eden’ nel capolavoro ‘Up’, ed è così, più che nel brano riciclato da Prince che ci piace ricordarla – è morta ieri all’età di 56 anni. Al momento di andare in stampa la causa non è nota, ma scrivendo di chi ha provato a spegnere più volte la luce prima del tempo, di chi è sopravvissuto a uno dei famigerati Magdalene Asylum (‘centri di detenzione giovanili’ irlandesi camuffati da conventi, ben ritratti in ‘The Magdalene Sisters’ di Peter Mullan), di chi è stato divorato dal music business, minato dal disturbo bipolare, di chi ha retto diciotto mesi al suicidio di un figlio 17enne finito in clinica per altra insanità mentale, forse poco importa se un giorno sia stata suora e il giorno dopo abbia sposato l’islam, e come sia morta.