Estero

Trent'anni senza la Diccì: il ricordo di Cirino Pomicino

Il 26 luglio 1993 finiva la Democrazia Cristiana. Ne parliamo con 'o Ministro, strenuo e ironico difensore della vecchia balena bianca

1948
26 luglio 2023
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È il 26 luglio di trent’anni fa, l’ultimo di tre giorni d’Assemblea costituente per la Democrazia Cristiana. Dopo gli scandali di Tangentopoli, dopo gli arresti e il crollo del consenso elettorale, in un’Italia assediata dai debiti e dagli attacchi speculativi, il segretario Mino Martinazzoli trascina il suo viso esausto sotto i riflettori del palacongressi all’Eur e mette ai voti la relazione conclusiva. Occorre, dice, “dare vita a un nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana”, quel Partito popolare che durerà il tempo d’un respiro. Il sinedrio approva. Quel giorno finisce la Democrazia Cristiana, l’enorme, potentissimo, ormai mitologico partito che aveva governato ininterrottamente l’Italia repubblicana per quasi cinquant’anni. Di lì a poco si aprirà la Seconda repubblica, con i primi bagliori dell’era berlusconiana.

Tra i grandi assenti all’Eur – l’ex segretario Arnaldo Forlani, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il ‘Divo’ Giulio Andreotti – si conta Paolo Cirino Pomicino, autosospesosi perché inquisito. Assolto poi in 40 processi su 42, oggi ’o Ministro – come lo chiamavano per il suo ruolo alla Funzione pubblica e al Bilancio tra fine anni Ottanta e inizio Novanta, oltre che per la sua spiccata inflessione napoletana – ha 83 anni e continua a difendere con affilata ironia il passato della ‘balena bianca’, poco amico com’è dell’attuale “repubblica delle Giovani Marmotte” (titolo d’un suo libro) e del centrismo 2.0, “tartufesco e paesano”. Ecco cosa fu, naturalmente secondo lui, la ‘Diccì’.

Il giornalista Michele Serra ha scritto: “Quando penso alla Dc, la ricordo come un enorme paio di mutande, non immacolate ma robuste, atte a contenere le vergogne del Paese”, quelle che poi sarebbero state esibite ai quattro venti nell’era Berlusconi. Ingeneroso?

Ma quali mutande… Serra rappresenta bene quegli avversari della Dc che per decenni hanno sostenuto il comunismo, una cultura crollata sotto il peso della miseria, dell’oppressione e delle morti che causò nei Paesi in cui governava. La Dc fu invece il più grande partito dell’Italia unitaria, quello che abbracciò il Paese dei cento campanili e ne garantì il passaggio dal mondo rurale a un ruolo di grande potenza industriale, evitando che tracimasse a destra o a sinistra. Ma quella della Dc è anche una cultura politica, ancora oggi meno erosa di tutte le altre: sul piano europeo i democristiani restano un punto di riferimento, mentre socialisti e liberali sono in affanno.

Quali sono le radici storiche del partito?

Con la revoca del ‘Non expedit’ nel 1919, il Vaticano permise ai cattolici di partecipare alla vita politica. Un filone culturale che si ispirava a Rosmini, a Maritain, a Lazzati e alla dottrina sociale della Chiesa di Leone XIII, che poneva obiettivi di welfare e tutela della persona nel contesto di un avanzamento democratico, si radunò dunque nel Partito popolare di don Luigi Sturzo, il quale finirà per ispirare – dopo una breve fase di governo condiviso – l’antifascismo di matrice cattolica. Da lì emergeranno figure come il fondatore Alcide De Gasperi e i due presidenti della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), Aldo Moro e poi Giulio Andreotti. Con quelle energie nascerà nel dopoguerra la Dc, che dopo la vittoria della Repubblica al referendum del 1946 parteciperà alla costituente con gli altri partiti di massa del Comitato di liberazione nazionale, e dopo le elezioni del 1948 – col trionfo sul Fronte Popolare – governerà il Paese escludendo i comunisti.

Iniziava il ‘centrismo’, che includerà radicali e liberali e poi, coi governi di centrosinistra negli anni ’60 e ’70, socialdemocratici e socialisti.

Il centrismo avviò il trentennio del miracolo economico italiano, che vide un ruolo fondamentale della mano pubblica attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), col sostegno dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni). Un momento in cui l’Italia conquistò anche una certa autonomia energetica e fece scelte politiche internazionali che perdurano ancora oggi, quali l’adesione al patto atlantico e la costruzione dell’Europa da parte dei democristiani De Gasperi, Schuman e Adenauer, perseguita nonostante la contrarietà di quasi tutto il restante arco politico. Dalla fine degli anni Sessanta, la stessa Dc seppe garantire continuità di governo nonostante periodi di forte instabilità (i cosiddetti ‘anni di piombo’ del terrorismo rosso e nero, ndr).

Quell’instabilità, però, era anche il prodotto di un Paese spezzato: il Partito comunista italiano – secondo partito del Paese, con un forte radicamento operaio, ma anche contadino e intellettuale – era escluso dal governo. Il tentativo di un ‘compromesso storico’, sondato negli anni ’70 dal presidente Dc Aldo Moro e dal segretario generale del Pci Enrico Berlinguer, finirà con un nulla di fatto. Un’occasione mancata?

Contrariamente a quanto pretende la ridicola narrazione oggi dominante, Moro non si illudeva di portare il Pci al governo come tale. Sperava semmai che quest’ultimo superasse la scissione di Livorno del 1921 col Psi, dando vita a un partito socialdemocratico moderno che potesse credibilmente alternarsi alla Dc, come in Germania facevano già Cdu e Spd. Ma nonostante Berlinguer avesse detto pubblicamente di preferire ormai l’ombrello atlantico al Patto di Varsavia, molti dei suoi lavorarono contro quell’evoluzione: una parte dello stesso Pci e Mosca, che finanziava il partito. Dall’altra parte si aggiungevano i condizionamenti angloamericani e quelli di altri attori e alleati internazionali. Nel frattempo, proprio le affiliazioni sovietiche di Botteghe Oscure – il “pericolo rosso” – offrivano un alibi per ogni forma di ingerenza nella politica italiana, per non parlare delle varie forme più o meno pericolose di golpismo e di destabilizzazione terroristica. Questa situazione generò in effetti un periodo durissimo, durante il quale proprio la Dc – che si era assunta la responsabilità di garantire sempre la continuità politica – pagò il prezzo più alto in termini di vite umane: si pensi a Moro, Vittorio Bachelet, Roberto Ruffilli e tanti altri.

Il Pci era controllato dal Cremlino, ma voi dal Vaticano, che scomunicava i comunisti e mobilitava pulpiti e oratori. Avete portato avanti battaglie di retroguardia come quella (persa) contro il divorzio nel 1974, quando secondo Cossiga il vero segretario della Dc era il papa, Paolo VI. L’allora segretario Amintore Fanfani diceva: “Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva!”

Eravamo un partito cattolico, ovviamente, ma non clericale: combattemmo contro divorzio e aborto, ma non ne facemmo mai una guerra di religione. Non a caso ci furono scontri anche col Vaticano, come quando De Gasperi si rifiutò di seguire l’esortazione di Pio XII a correre coi neofascisti per le Comunali di Roma del ’52.

C’è chi la vede diversamente, specie per quanto riguarda la seconda fase del potere Dc. Indro Montanelli scrisse che “quando andavano in chiesa insieme, De Gasperi parlava con Dio, ma Andreotti col prete”. Un altro giornalista, Roberto Gervaso, definì i democristiani “cattivi cattolici, ma ottimi clericali”.

Tutti personaggi al soldo di altre culture e interessi: Montanelli, che era stato fascista, non risparmiò attacchi a Enrico Mattei (che cercava di ritagliare una posizione di indipendenza per l’Eni e morì nel 1962 in circostanze misteriose, ndr) per conto delle ‘sette sorelle’ (fu lo stesso Mattei a coniare questo termine per definire il cartello tra le grandi multinazionali petrolifere, ndr). Dietro a molte critiche alla Dc di quegli anni si nascondono posizioni immorali, come anche quelle d’una certa cultura di sinistra che strizzava l’occhio al brigatismo rosso.

Intanto la Dc imperava senza rinunciare a consolidati clientelismi e perfino – sostengono alcuni – governando con la mafia. O no?

Guardiamo i dati di fatto. Nel 1958 fu la Dc a opporsi al ‘milazzismo’ con cui destra e sinistra, sostenute dalla mafia, cercarono di esautorarla dal governo dell’isola. Nel 1989 il decreto Andreotti-Vassalli raddoppiò la custodia cautelare degli imputati per mafia, consentendo tra l’altro il corretto svolgimento del maxiprocesso di Falcone e Borsellino. Chi vi si oppose? Il Pci. Poi votammo l’istituzione della Direzione nazionale antimafia. Chi votò contro? Il Pci, che cercò anche di impedire che fosse Falcone a guidarla. Estendemmo poi il 41bis, il regime di carcere duro, dai terroristi ai mafiosi. Ancora una volta, chi votò contro? Il Pci. Ricordo infine i molti democristiani uccisi dalla mafia, ad esempio Piersanti Mattarella, fratello del presidente Sergio, e Salvo Lima. Dunque, qual era il partito amico della mafia? (Va ricordato che anche il Pci ebbe i suoi martiri per mano di Cosa Nostra, come il sindacalista e segretario regionale Pio La Torre, ndr.)

Ma la Dc – a differenza di molti cugini in altri Paesi – collassò sotto il peso di Tangentopoli, ovvero per le accuse di corruzione e finanziamenti illeciti. Una vicenda che lei ha vissuto in prima persona: 42 processi – 40 assoluzioni, una condanna per finanziamento illecito e un patteggiamento – e 17 giorni nel carcere napoletano di Poggioreale, con tanto di sciopero della fame.

Il patteggiamento per accuse assurde lo accettai dopo mesi di pressione da parte della Procura di Milano, mentre ero in attesa di un trapianto di cuore. La condanna è dovuta alla questione del finanziamento illecito. Una responsabilità grave della Dc e di tutto il sistema politico: non spiegarono per tempo ai cittadini come per fare politica ci fosse bisogno di risorse e vararono una legge sul finanziamento dei partiti che avrebbe permesso al massimo la campagna elettorale d’un consigliere di quartiere. Ma una politica povera finisce subito sotto schiaffo della finanza e dell’economia: il governo di chi non si lascia mai votare.

Prima che finisse la Guerra Fredda, Mani Pulite sarebbe stata probabilmente impensabile. Come spiega lo scoppio dell’inchiesta?

Ritengo che a stimolare la cosiddetta ‘opzione giudiziaria’ sia stata una parte preponderante del grande capitalismo italiano, lo stesso – gli Agnelli, i De Benedetti, i Tronchetti Provera – che controllava anche la maggior parte dei giornali. Intanto il Pci non era riuscito a compiere la transizione verso un’alternativa di governo democraticamente credibile, e con la caduta del Muro di Berlino era rimasto orfano dei suoi appigli e dei suoi simboli. Allora quel mondo economico-finanziario si illuse – con un’idea tipica dei dilettanti – di poter mettersi alla guida del Paese, manovrando le vestigia territoriali di quello stesso partito ormai svuotato, e arrivando a includere quella sinistra democristiana che si era prestata alla liquidazione della Dc, stranamente mai sfiorata dalle inchieste. Il problema è che poi le procure, diventate protagoniste di queste velleità di cambiamento, finirono per lambire anche quegli stessi poteri economici. Ma soprattutto successe l’inevitabile: quando si azzera ogni riferimento politico e ideale, quando la politica è messa in mano ai dilettanti, il disastro è assicurato.

Insomma: dopo di voi, il diluvio?

In Europa ci sono ancora partiti socialisti, socialdemocratici, verdi, liberali, popolari. Da noi sono stati sostituiti da formazioni estemporanee: Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione, Cinquestelle… Ora, mi dica lei: cosa penseremmo se a Berlino si affermassero, che ne so, Forza Germania, le Sorelle tedesche, il Movimento Cinquelune? Probabilmente, che quel Paese è in declino. Intanto, in Italia negli ultimi trent’anni la crescita è stata pressoché inesistente, la povertà è raddoppiata, le disuguaglianze sono esplose. Nei primi quarant’anni di vita della Repubblica abbiamo ottenuto sette premi Nobel, negli ultimi trenta solo uno. Perché quando declina la politica, tutto declina insieme a lei.

NAZIONALPOPOLARE

I papaveri di Fanfani e l’opzione Nilla Pizzi

“Vola, colomba bianca, vola…” Che la canzone vincitrice del Festival di Sanremo 1952 dovesse finire più o meno ufficiosamente nel repertorio democristiano, era pressoché inevitabile: c’è il niveo candore d’un animale caro alla simbologia cristiana, quel “Dio del ciel” che apre le strofe come una preghiera, l’idea di ascesa che faceva sognare un Paese ancora in bilico tra il campo e la fabbrica (oltre a qualche riferimento alla questione triestina, due anni prima che l’Italia si riprendesse la città). Pazienza se poi, in occasione d’un viaggio di De Gasperi negli Usa, qualcuno gli canticchiava “vola laggiù, dov’è il tuo amor / vola coi tuoi Americani / perché con noi / non puoi restar”.

Meno scontato era che quell’anno il partito di Piazza del Gesù riuscisse a intestarsi pure il brano secondo classificato – cantato anch’esso dalla Pizzi: altri tempi, altri regolamenti –, quello dei papaveri che “son alti alti alti e tu sei piccolina”. Ritornello che all’epoca fu visto da alcuni solerti funzionari come possibile allusione al bassino, ma politicamente altissimo papavero democristiano Amintore Fanfani. Eppure la balena bianca riusciva a ingurgitare e digerire tutto, incorporando anche un’apparente presa in giro insieme al plancton del suo essere partito-Paese: per le amministrative di quell’anno preparò un manifesto in cui i fiori dal lungo stelo, ovviamente rossi, simboleggiavano i comunisti, prontamente recisi dalla forbice del voto (lo slogan, di metrica e gusto discutibili, era “lo sai che i papaveri son alti, alti, alti / dagli ’na tagliatina, dagli ’na tagliatina).

Aggiungiamo che al terzo posto si classificò di nuovo – indovinate un po’? – Adionilla ‘Nilla’ Pizzi da Sant’Agata Bolognese, con un altro brano in odor di santità, ‘Una donna prega’: “È una donna che implora / una grazia divina / vede nel pensier / tutti gli angeli in ciel”. Una e trina. Quel successo non si sarebbe più ripetuto, ma preannunciava qualcosa che era lì per restare: il netto predominio democristiano sulla cultura che alcuni, con un certo snobismo, avrebbero poi definito “nazionalpopolare”. Mezzo secolo che va dai primi Sanremo radiofonici alla terza età di Pippo Baudo, mellifluo presentatore televisivo che secondo Antonio Ricci era “il vero capo della Dc”.

Da Gramsci a Guareschi

Certo, quello delle grisaglie e dei ritiri spirituali non fu mai un partito famoso per la sua fantasia. Molti obietteranno – con qualche ragione, impugnando peraltro un concetto gramsciano – che sull’Italia pesava semmai una “egemonia culturale” della sinistra: i cantautori, i film di Pasolini prima e di Moretti poi, il teatro di Strehler e Fo, le edizioni Feltrinelli, perfino i canti delle mondine rifatti alla chitarra, come gli spaghetti. Tutto vero, tutto giusto. Ma nell’eterno confronto guareschiano tra Peppone e Don Camillo, fu la Dc che seppe parlare meglio a quelle che allora, senza timore di ferire qualche ego dalla pelle troppo sottile, si chiamavano “le masse”. Non solo e non tanto attraverso le geniali trovate dello stesso Giovannino Guareschi, che sul ‘Candido’ satireggiava contro i comunisti “trinariciuti” (con la terza narice deputata a far uscire il cervello e fare entrare le direttive del Cremlino: “Contrordine, compagni!”). E neppure affidandosi esclusivamente al terrorismo da sacrestia sugli avversari che mangiano i bambini e minacciano la famiglia, trovata sempre meno efficace man mano che il boom elevava non solo le condizioni materiali, ma anche quelle culturali degli italiani.

Fu piuttosto una proprietà strutturale, quasi ontologica a rendere onnipervasiva e vincente la presenza culturale democristiana: quella sua capacità di essere ovunque – oggi si direbbe “mainstream” – come l’incenso o come l’aria, al punto da diventare tanto scontata quanto necessaria. Il tutto senza mai proporre manifesti ideologici, orizzonti rivoluzionari, sogni di contestazione, perché all’epoca era normale dover scegliere tra la lotta e il governo, e il partito veniva prima di qualsiasi individualismo istrionico. “Erano il potere e il consenso, i nostri argomenti”, scriverà il sottile diccì Marco Follini nel suo ‘Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito’ (Sellerio).

Nostalgia canaglia

Il risultato fu paradossale. Perfino all’oratorio si conoscevano a memoria ‘La locomotiva’ di Guccini e ‘Bandiera rossa’, mentre nessuno ricordava il testo di ‘Biancofiore’, osceno inno ufficiale in cui una bandella di campagna si cimenta in improbabili ritmi marziali (“O bianco fiore / simbol d’amore / con te la gloria / della vittoria”: memorabile il duetto di Casini e Cossiga a Un giorno da pecora, qualche anno fa). Però Sanremo continuava a surclassare i cineforum impegnati, mentre lo stato gassoso della Dc – sempre a livello culturale, per un bilancio politico e sociale servirebbero altri spazi e altre teste – le permise di dominare l’immaginario collettivo senza neppure dar l’impressione di provarci (di popolare c’erano anche le feste dell’Unità, d’accordo, ma quella è un’altra storia).

Era, quella fluidità, il correlato ideale d’un partito che teneva insieme anime completamente diverse: contadini meridionali e colletti bianchi del nord, sindacalisti e faccendieri (“A Fra’, che te serve?”), preti con la talare bucata e industriali col conto a Lugano. Una cultura che fu resa obsoleta, proprio come quella del Pci, più dai tempi e dagli stravolgimenti internazionali che dalle pur profonde contraddizioni interne, tanto che ora c’è perfino chi la rimpiange. Ovviamente la nostalgia non serve. Però è comprensibile: di fronte alle bramosie dell’odierno populismo, è facile idealizzare bovaristicamente il garbo e la lungimiranza di quel passato, dimenticandone però i compromessi, le ipocrisie, il paternalismo, le coercizioni. È l’opzione Nilla Pizzi.