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Lucio Battisti, vita e musica di un ‘Genio invisibile’

Nato, come Dalla, nel marzo del 1943, oggi il Lucio di Poggio Bustone avrebbe ottant’anni. A lui è dedicato il nuovo libro del ‘devoto’ Andrea Scanzi

‘Non è un caso che McCartney e Bowie abbiano sempre detto che Battisti è stato uno dei più grandi di sempre’
(Keystone)
21 luglio 2023
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«Ha fatto per l’Italia ciò che i Beatles hanno fatto per il mondo, perché non esiste una musica leggera uguale a prima e dopo di lui». Parole di Andrea Scanzi, che ha dato alle stampe ‘Lucio Battisti. Il genio invisibile’, il suo terzo libro dedicato ai cantautori italiani. Battisti che così come l’altro Lucio – Dalla, più vecchio di lui di un solo giorno, non meno geniale – avrebbe oggi ottant’anni.

Andrea Scanzi: partiamo dal concetto di genio, e da quello di ‘invisibilità’?

Certamente. Parlo di ‘genio’ perché oggettivamente lo è stato. Musicista sopraffino, avanti nei tempi, è stato in grado di coniugare il desiderio di vendere, di essere radiofonico, nazionalpopolare, commerciale, con il desiderio di sperimentare, rinnovare. Riuscire a essere al tempo stesso sperimentatori e vendere così tanto per almeno quindici anni è probabilmente un unicum che ha riguardato solo lui. ‘Invisibile’ perché lo ha deciso lui, nel 1970 smettendo con i concerti, nel 1972 chiudendo con le apparizioni televisive in Italia, non in Svizzera e Germania, dov’è apparso fino alla fine degli anni 70, e poi smettendo letteralmente di apparire al punto tale da rifiutare fotografie e interviste. Questa sua è un’invisibilità che a me piace, perché coerente con il personaggio, che diceva di non voler stare in vetrina e che tutto quello che aveva da dire stava nei dischi. Un’invisibilità che, invece, molti giornalisti e addetti ai lavori non gli hanno mai perdonato. Di lui, nel libro, ho cercato non di prendere le difese, perché sarebbe tardi e inutile, piuttosto di mettere i puntini sulle i, perché credo che in tanti dovrebbero chiedergli scusa.

A proposito del raffronto con i Beatles: ci fu un incontro di Battisti con Paul McCartney, che aveva grande stima nei suoi confronti…

È vero, e ogni volta che racconto questa cosa tutti trasecolano. A inizio ’68, quando Battisti non era ancora nessuno e Mogol invece sì, i due vanno in Inghilterra perché il paroliere doveva incontrare Bob Dylan. Battisti incontra, per volere dei produttori dei Beatles, proprio McCartney, perché secondo i produttori è bravo, promettente e andrebbe prodotto. Battisti dice di no. Immaginate un 24enne non ancora famoso, che arriva da un comune sperduto, per quanto bello, della provincia di Rieti e dice di no ai Beatles. Una motivazione, anche un po’ gretta ma comprensibile, esiste: Lucio dice di no perché i produttori dei Beatles avrebbero trattenuto troppi soldi, un 25% che secondo lui era troppo, ma dice di no soprattutto perché era convinto che ce l’avrebbe fatta da solo. Questa autostima che lui esibisce in quell’occasione mi affascina molto, perché ci fa capire che era sì timido, insicuro, restio ad apparire, che dubitava della sua voce o dell’essere un gran parlatore, ma delle proprie doti artistiche era consapevole. E aveva ragione.

Riprendi dichiarazioni dall’ultima intervista, quella del 1979 rilasciata da Battisti a Giorgio Fieschi, cruciale per capire l’artista e non solo perché è l’ultima…

Faccio i complimenti a Fieschi perché quell’intervista è fondamentale. Intanto, do atto a voi svizzeri di avere ‘antennine’ particolarmente senzienti, perché è una costante il fatto che molti grandi artisti italiani abbiano fatto le loro ultime apparizioni radiofoniche e televisive, o rilasciato le ultime interviste, in Svizzera. Gaber fece lo stesso. Quelli di Fieschi sono diciotto minuti che possiamo ascoltare in qualsiasi momento, su YouTube, non confutabili. Ci sono due elementi che riporto nel libro, molto importanti. Il primo è il rapporto con Mogol. L’intervista è del ’79, cioè tra ‘Una donna per amico’, album dal successo fragoroso uscito un anno prima e ‘Una giornata uggiosa’, che uscirà nel 1980 e sarà l’ultimo disco Mogol-Battisti. Ancora oggi ci si chiede perché i due si siano lasciati, e le motivazioni sono molteplici: economiche, anche di bassa lega, relative ai confini tra le due ville, ma soprattutto, e in questa intervista Battisti lo dice un anno prima di rompere i rapporti, i due avevano intrapreso strade diverse, si vedevano solo un mese l’anno per scrivere le canzoni, le loro vite non avevano più nulla in comune. Evidentemente, le loro strade erano destinate a separarsi, perché Mogol voleva reiterare la ricetta perfetta e invece Battisti voleva cambiare, e infatti arriverà Panella.

L’altra cosa tanto importante da indurmi a cominciare il libro con una citazione da quell’intervista, è la definizione che Battisti dà a Fieschi della propria musica: pur incespicando nelle parole, dice di fare fatica a definirla, perché in essa convivono una componente molto colta, molto alta, e una componente molto popolare, definita addirittura “rozza”. Lucio dice di cercare ogni volta di tenere insieme la componente del musicista che studia, sperimenta, che vuole provare nuove sonorità, con la componente rozza, così che la sua musica arrivi a quel pubblico che non ha voglia di studiare, di sentire chissà quali cose e vuole che la sua musica gli arrivi direttamente.

Fra gli aspetti contrastanti come questo, potremmo considerare, su altro piano, il desiderio di successo di Battisti insieme alla ritrosia verso lo stare in pubblico, o l’essere considerato padre dei cantautori quando invece scrisse pochissimi testi...

Vero. La sua è una carriera coerente ma che si basa proprio sui contrasti. Sicuramente c’è quello di voler emergere a tutti i costi, anche economicamente, per vendite, successo, classifiche, e al tempo stesso il non gradire di apparire fisicamente. Lo ha detto tante volte, voleva che il pubblico comprasse i suoi dischi a prescindere da come lui fosse, di cosa dicesse, pensasse, facesse. Tutto quello che aveva da dire era nei dischi, cosa molto bella ma, come detto, per molti imperdonabile. Su di lui sono usciti articoli di una violenza assoluta, lo hanno preso in giro per la voce, perché negli ultimi anni era ingrassato, lo definivano un tirchio, hanno fatto credere che fosse di destra. Per alcuni giornalisti, addirittura, avrebbe finanziato il terrorismo nero, una sciocchezza inaudita. Questo rende Battisti anche difficile da raccontare, perché lo conoscono tutti ma solo in superficie, i grandi successi, i grandi singoli, non sapendo perché e come li avesse scritti, e quante volte si fosse messo in gioco.

C’è una canzone che merita più di altre di essere raccontata?

Ce ne sono tante, ma credo che al primo posto metterei tutto il disco ‘Anima latina’. È un’opera rivoluzionaria, rischiosa, folle, dentro la quale Lucio inserisce tutto, il pop, il rock, il folk, la musica latina perché è reduce da un viaggio in sudamerica, il progressive, le suite, sonorità mai udite prima; abbassa addirittura il volume della voce affinché la musica sia dominante sulla voce, turbando Mogol. ‘Anima latina’ non venne compreso, perché nel 1974 nessuno si sarebbe aspettato un disco così astruso dopo ‘Il mio canto libero’ e ‘Il nostro caro angelo’. Oggi è sempre tra i migliori album di tutte le classifiche italiane, mentre 49 anni fa fu sostanzialmente un flop, perché Battisti, come tutti gli sperimentatori, le cose le captava prima. Non è un caso che McCartney e Bowie lo considerassero uno dei più grandi di sempre.

Al contrasto aggiungo un elemento riferitomi dal manager di Gaber qualche settimana fa, quando gli ho chiesto cosa dicesse Gaber di Battisti. Paolo Dal Bon mi ha detto che Gaber non parlava moltissimo di lui, lo stimava molto, lo riteneva musicalmente un fenomeno assoluto, ma diceva sempre “Lucio ha un grande problema: non sa comunicare”. Questa cosa lo rende affascinante, lo rende genio invisibile, ma gli ha complicato dannatamente la vita.

Leggendo il libro, ho fatto l’esercizio di riascoltare brani di alcuni dischi. Non ricordavo le code sterminate, o gli album solo di brani strumentali...

Battisti era molto orgoglioso di questa componente. Gli strumentali si trovano nel suo primo disco vero, ‘Amore e non amore’, album del 1971 abbastanza coraggioso sul quale i brani cantati erano anche ironici, alcuni osé, oggetto di censura. E poi c’erano quattro composizioni più liriche, tracce solo strumentali. Di fatto, in quel disco Battisti fece il direttore d’orchestra. Ma le code sono anche in canzoni più famose, come ‘Non è Francesca’, che ha una splendida coda di due-tre minuti, con intuizioni tecnologiche incredibili per quegli anni. Lo stesso accade in ‘Anima latina’, pieno di code e introduzioni.

A questo proposito, come hai detto tu, è un po’ inesatto definire Battisti ‘cantautore’ o ‘padre dei cantautori’. Per carità: se per cantautore s’intende il pioniere, allora sì. Per me, cantautore è colui che scrive e canta le proprie canzoni, dunque De André, Guccini, Fossati, Gaber, per quanto, relativamente a Gaber, Luporini fa di lui un cantautore anomalo. Battisti era un grandissimo musicista, il più grande di tutti, come ha detto Vecchioni qualche settimana fa. Lucio avrà scritto interamente tre o quattro canzoni a inizio carriera e nemmeno gli piacevano, lo dice anche a Fieschi. Dunque ‘cantautore’ è inesatto, va chiamato semmai ‘papà della musica leggera italiana’, che non era per niente leggera.

Aggiungo nostalgia: ancora oggi, un giovane che cominciasse a strimpellare la chitarra potrebbe suonare ‘La canzone del sole’…

Pensa che genialità! Qualcuno ritiene una debolezza il fatto che ‘La canzone del sole’ abbia sempre gli stessi accordi. E pensa quanto devi essere bravo a scrivere una canzone perfetta, con un testo magari non epocale ma così semplice, e a renderla eterna. Quello fu il primo singolo che Battisti fece con la nuova casa discografica fondata insieme Mogol, la Numero Uno. Se lo accenni in qualsiasi piazza, di qualsiasi città, la gente la canta, tutta insieme. Cosa può chiedere di più un autore di canzoni, innanzitutto, musicalmente? È un capolavoro, ed è anche, effettivamente, la maniera migliore per cominciare a suonare la chitarra.

In quale disco sta il ‘tuo’ Lucio Battisti?

A parte in ‘Anima latina’, per i motivi che ho spiegato, sono molto legato a quelli di Mogol ma anche a ‘Don Giovanni’ e ‘L’apparenza’, i primi due album con Panella. Più del resto, amo il Battisti dal ’76 al ’78, che nel libro definisco quello della trilogia della maturità, ‘La batteria, il contrabbasso, eccetera’, ‘Io tu noi tutti’, ‘Una donna per amico’. Scelgo però ‘La batteria, il contrabbasso eccetera’, il suo disco più compiuto, più facile nel senso nobile del termine, e più sperimentale perché tiene insieme l’aspetto commerciale e geniale con sonorità meravigliose, e dentro solo capolavori. Scelgo quello perché è una delle ultime volte in cui lo vediamo in copertina, e la copertina mi fa impazzire, e per due caratteristiche: è un disco condizionato da un genere che a Battisti piaceva molto, ma che sembrava non c’entrare nulla con la musica dei cantautori, ovvero la disco music, che arriva proprio in quegli anni. Lucio invece ce la fa entrare, e ci sta benissimo, come pure, in seguito, in ‘Si viaggiare’ e ‘Nessun dolore’.

L’altro elemento: nel ’76 Battisti ha 33 anni, è già iperaffermato, vende da morire; la prima versione del disco vedeva al suo interno Alberto Radius, Vince Tempera, Mario Lavezzi, tutti fenomeni; giunto il momento di mixarlo, a Lucio il disco non piace fino in fondo; mentre lo dice, il caso vuole che nel corridoio nella Numero Uno ci sia un chitarrista che sta strimpellando, in attesa di sostenere un’audizione; quel chitarrista è lo sconosciuto Ivan Graziani. Battisti gli chiede il nome, lo fa suonare un po’ e gli dice, parole testuali, “tu adesso suoni per me, mi rifai questo disco”. Per ‘colpa’ di Ivan Graziani, Lucio reincide tutti i brani e cambia completamente la struttura di quell’album, rinunciando a musicisti meravigliosi. Evidentemente, quel disco aveva bisogno di quelle sonorità, e mi piace non solo perché amo Ivan Graziani, ma anche perché dimostra quanto Battisti fosse esigente nei confronti di sé stesso. Per quell’opera poteva permettersi qualsiasi cosa, e avrebbe venduto tantissimo anche con altri musicisti, ma lui voleva il meglio e il meglio in quel momento era Ivan Graziani.

L’intervista integrale è disponibile su www.naufraghi.ch (per gentile concessione)


Edito da PaperFIRST