La Svizzera sacrifica una parte consistente del proprio bilancio per proteggersi. E la spesa in questo settore è in aumento
Il budget della Confederazione per il 2024, che è stato appena corretto in crescita a 89,7 miliardi di franchi, prevede un deciso aumento delle spese per la sicurezza rispetto al 2022. Si tratta della seconda voce più importante dopo quella riguardante i diversi capitoli della cosiddetta previdenza sociale. In sostanza, da queste cifre, esce il ritratto di un Paese che dedica oltre un decimo delle proprie risorse alla socialità, ma anche l’immagine di uno Stato il quale, nel difficile contesto internazionale, contraddistinto da una guerra nel cuore dell’Europa, si ritrova a dover sacrificare una parte consistente del proprio bilancio per proteggersi.
Non a caso le spese per l’esercito, a partire dal 2024 e fino al 2026, registreranno un aumento del 3%. Per la gioia della ministra della Difesa, Viola Amherd, guarda caso oggi la più popolare tra i consiglieri federali, forse perché si ritiene abbia ridato smalto all’esercito rossocrociato, tra l’altro dotandolo di 36 caccia F35, a quanto pare il non plus ultra dell’aviazione militare contemporanea. Che poi, accanto agli F35 non esista un aereo da trasporto e questa mancanza ci costringa ad elemosinare posti su quelli degli altri, per mettere in salvo il personale delle nostre ambasciate, in caso di crisi come quella scoppiata lo scorso aprile in Sudan, è un altro paio di maniche.
Tornando più da vicino alla questione della sicurezza e dando una scorsa al recente rapporto dei servizi segreti elvetici, si viene messi in guardia dallo scorrazzare, nella Confederazione, di 007 russi e cinesi, le cui attività si sono intensificate in seguito all’aggressione di Mosca all’Ucraina. Forse è stato sottovalutato il problema in quanto, ormai da oltre un anno, ovvero da quel 24 febbraio 2022 che ha dato un forte scossone alla stabilità continentale, sappiamo che, mentre nell’Ue e negli Stati Uniti lo spionaggio russo è stato messo alle corde rimane per contro attivo più che mai in Svizzera. Si calcola, infatti, che delle 220 persone impiegate nella Confederazione dai servizi diplomatici russi, almeno un terzo sarebbero, in realtà, nient’altro che delle spie. Ciò che mette sotto pressione i nostri servizi di intelligence e ci crea imbarazzo, di fronte all’alleanza filo-ucraina di cui, sia pure con i distinguo impostici dal principio di neutralità, pure noi facciamo parte. D’altronde il nostro ministro degli Esteri, Ignazio Cassis, non ha ritenuto di dover espellere alcun diplomatico russo, contrariamente a quanto hanno fatto altre nazioni. Sempre i servizi di intelligence svizzeri mettono in guardia da potenziali attacchi di jihadisti, privilegiando l’ipotesi di atti isolati, come quelli verificatisi, recentemente, in altri Paesi europei.
Poi c’è la questione dei quartieri “sensibili” di alcune città, in particolare nella Svizzera romanda, dove si assiste a un’esplosione di rabbia, soprattutto tra i giovani, spesso immigrati e non scolarizzati, che le forze dell’ordine e i servizi sociali faticano a tenere sotto controllo. C’è allora da chiedersi se la politica di sicurezza, oltre a occuparsi di spie straniere e di infiltrare potenziali jihadisti, non debba anche prevenire la nascita di periferie alla francese, offrendo più opportunità ai tanti che sono marginalizzati sin dall’infanzia.