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Stelle del jazz a Chiasso (plurale femminile)

Fresu, Holland, ma anche una notte rosa nel XXIV Festival di cultura e musica jazz che si apre giovedì 9 marzo: incontriamo Lucia Cadotsch

Lucia Cadotsch, venerdì 10 marzo
(Manos Kalafatelis)
8 marzo 2023
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Si dice, con coscienza, che l’8 marzo sarebbe da festeggiarsi ogni giorno. Il Festival di cultura e musica jazz di Chiasso, che apre domani per durare fino a sabato, deve aver preso il concetto alla lettera, avendo previsto per venerdì 10 marzo un doppio appuntamento denominato ‘Il Jazz è donna’, sottotitolo ‘Protagoniste della scena jazz internazionale’. Prima di riassumere tutte le stelle della XXIV edizione, partiamo da qui, dal venerdì dello Yazz Ahmed Quartet di, appunto Yazz Ahmed (alle 22), trombettista britannico-bahreinita portatrice di un "jazz arabo psichedelico, inebriante e avvincente"; partiamo anche da Lucia Cadotsch (alle 20.30), rapiti da una voce senza connotazioni spazio-temporali che nei molteplici capitoli di ‘Speak Low’, tra il 2016 e il 2020, insieme a Petter Eldh (contrabbasso) e Otis Sandsjö (sax tenore) ha portato alcuni standard del jazz in un altrove sonoro gradevolmente spiazzante.

New German Jazz Award nel 2012 con l’originaria band Schneeweiss + Rosenrot, Echo Jazz Award nel 2017 alla cantante dell’anno (per il primo ‘Speak Low’), German Jazz Award nel 2021 categoria ‘Vokal’, Cadotsch è zurighese di nascita ma vive a Berlino. A Chiasso porta ‘AKI’, progetto e formazione, con al suo fianco Kit Downes (pianoforte, organo), Matthias Pichler (contrabbasso) e Fabian Rösch (batteria).


Manos Kalafatelis
Dal vivo ad Atene

L’intervista

‘Di Berlino non ne hai mai abbastanza’

Lucia Cadotsch, come e quando il jazz entra nella sua vita?

Mio padre era un fan del jazz, aveva una grande collezione di dischi. Sono cresciuta in una casa nella quale si ascoltavano John Coltrane, Lee Konitz, Billie Holiday, Tom Jobim, Jorge Ben, ma anche Eric Satie e Mani Matter. Per quel che ricordo io, e per quel che mi è stato raccontato, ho sempre cantato, in casa, all’asilo. Ho continuato a farlo in un coro di bambini e poi, all’età di 14 anni, ho incontrato alcuni giovani musicisti e ho capito che il jazz non era solo la musica dei miei genitori, ma anche qualcosa che poteva appartenere alla mia generazione. Mio padre suonava il sax, aveva una band, ma erano sempre e comunque musicisti della sua età. Invece il jazz era vivo, moderno, attuale. Da giovane hai bisogno di role model, la musica è anche una connessione con la propria identità.

Nella sua formazione vocale, vi sono state voci specifiche a farle da guida?

Decisamente Billie Holiday e Nina Simone, che ritengo abbiano esercitato le principali influenze su di me. Aggiungerei anche Abbey Lincoln e Dinah Washington. In ambiti più legati al songwriting c’è Marie Laurette Friis, cantante e cantautrice di Copenaghen la cui musica, intesa come modo di comporre e scrivere testi: una volta scoperto il suo mondo, se n’è aperto uno tutto mio, fatto di composizione e poesia.

Come arriva a Berlino?

Per una banale coincidenza: dall’incontro con una cantante. Desideravo studiare con lei e lei viveva lì. Di Berlino mi sono innamorata che avevo diciott’anni: ho fatto la valigia, ho preso la mia bicicletta e sono salita su un treno. A Berlino ho fatto jam session sin dalla prima sera, grazie anche al fatto che in città già conoscevo alcune persone. Sono ancora qui dopo vent’anni, in una città ancor più vibrante, sempre più internazionale, che accoglie sempre più persone. La amo perché è grande abbastanza per scoprire ogni volta cose nuove. Ho vissuto a New York per un mese, città mastodontica nella quale si spende un’enorme quantità di tempo per viaggiare. Anche di Berlino non ne hai mai abbastanza, ma in trenta minuti di bicicletta puoi arrivare dove ti pare.

Quanto ai due capitoli di ‘Speak Low’, usciti a distanza di quattro anni l’uno dall’altro, se non fossero riconoscibili in quanto standard potrebbero essere composizioni pubblicate ieri. Cosa la ha guidata in questa revisione?

Amo il jazz, sono cresciuta con quelle canzoni, lo ho cantate e studiate. Nel mondo ci sono milioni di versioni, splendide, profonde; mi sono chiesta come farne una versione che non fosse una copia dell’originale, o qualcosa di già esistente. Ho lavorato tanto per arrivare a un modo personale di interpretarle, era importante trovare un approccio differente e sono stata felice di aver trovato Petter e Otis. Ci uniscono una visione comune e un terreno sul quale ci muoviamo insieme.

Due parole su ‘AKI’, il concerto cui si assisterà a Chiasso, e su Kit Downes? Un lungo sodalizio vi lega...

Intanto ‘AKI’ è il titolo del nuovo album, per il quale ci avvaliamo di un’orchestra, di elettronica, sintetizzatori e beat. Ho incontrato Kit Downes a Londra in occasione delle registrazioni di ‘Speak Low’, album nel quale era guest. Il suo intervento è stato così entusiasmante che gli abbiamo chiesto di tornare anche in ‘Speak Low II’ e in un paio di concerti. ‘AKI’ lo abbiamo creato insieme, è un insieme di composizioni originali che rappresentano anche il fulcro del concerto di Chiasso (www.luciacadotsch.com).

Il Festival di cultura e musica jazz di Chiasso: il programma

Dal ‘Cibo’ ai Grammy

Di giovedì 9, alle 20.30 gli svizzeri Ikarus, brillante quintetto groove-jazz contemporaneo; poi, alle 22, Chiasso assaggia ‘Food’, progetto di Paolo Fresu e Omar Sosa che va a completare la trilogia aperta da ‘Alma’ (2012) ed ‘Eros’ (2016). ‘Food’ (quale altro titolo?) indaga il tema del cibo sotto il profilo del gusto, dell’estetica e dell’etica. Tecnicamente parlando: i suoni di cantine e ristoranti, gli echi di presse, calici tintinnanti, olio sul fuoco e voci di lingue diverse, in ‘Food’ diventano colonna sonora; digitalmente manipolati, equalizzati, tagliati, messi in loop, fungono da ‘soffritto’ per la cucina musicale dei due virtuosi.

Di venerdì 10, quanto di femminile esposto poco sopra. Di sabato 11, alle 20.30, il Lunatics Quartet di Francesco D’Auria (batteria), con Tino Tracanna (sassofono soprano e tenore), Roberto Cecchetto (chitarra) e Umberto Petrin (pianoforte), un estratto della generazione che a partire dagli anni 80 ha conferito credibilità internazionale al jazz italiano. Alle 22, un po’ di storia del jazz con Dave Holland, bassista, compositore e bandleader dai molteplici Grammy (tre) e il titolo di NEA Jazz Master, l’autoproclamato più alto riconoscimento che gli Stati Uniti conferiscono ai musicisti jazz.

Nella notte che porta a domenica, il Festival chiude con TUN - Torino Unlimited Noise, trio formato dai jazzisti italiani Gianni Denitto (sax), Fabio Giachino (synth) e Mattia Barbieri (batteria/drum pads), insieme dal 2018 per fondere il jazz con la techno (www.centroculturalechiasso.ch).


Paolo Fresu (sx) e Omar Sosa, giovedì 9 marzo


Dave Holland, sabato 11 marzo

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