Il suo successo scardina i principi di un Pd che ha perso seguito e identità
Elly Schlein sbanca, vince a sorpresa le primarie Pd, diventa la sua prima donna al vertice assoluto, sconfigge il tenace maschilismo della sinistra, riporta un numero convincente di votanti ai gazebo in un’Italia fortemente astensionista, supera di slancio anche la tradizione che aveva sempre confermato il successo di chi (nel caso specifico Stefano Bonaccini, suo ex capo alla Regione Emilia Romagna) si era imposto nel voto preventivo e più scontato di circoli e iscritti. A sua volta ‘underdog’ Schlein, come l’altra signora arrivata alla guida del Paese, Giorgia Meloni, da cui la separa tutto: postura politica, convinzioni, radicalità, difesa delle minoranze anche sessuali, cosmopolitismo, un europeismo sincero e maturo, non dettato dalle contingenze.
Al maggior partito di centrosinistra italiano la neosegretaria offre propositi (in primis "le tre giustizie", sociale ambientale e di genere) che ne dovrebbero riempire il "vuoto" di idee, di energia, di identità manifestatosi ancor prima della stangata elettorale del 25 settembre. Nei gazebo ha prevalso la scelta dettata da una frustrazione e da un sentimento, prima ancora che da un progetto. Rimettere in piedi "dal basso" un Pd semiparalizzato, malato di governismo a tutti i costi, recentemente protettosi con l’inutile scudo della cosiddetta "agenda Draghi senza Draghi", privo di sguardo convincente sulla massa di "ultimi e penultimi", giovani precari inclusi, precipitatisi anche per questo nelle braccia di populismo e sovranismo. Fino a ieri, una perfetta sintesi l’aveva fatta la politologa Nadia Urbinati: "Partito rimasto in mezzo al guado per non voler scegliere su quale sponda attraccare".
L’esultanza della ticinese dopo l’annuncio (Keystone)
Schlein che spacca in due il Pd, titolavano ieri i primi commenti. A conferma che i duellanti non erano affatto sovrapponibili: un Bonaccini bravo amministratore, ma visto sotto il segno della continuità, ex renziano teorico del ‘catch all’ (cercare i voti ovunque), considerato più portato a tutelare certi "mandarinati" interni; e una Schlein movimentista, decisamente più identitaria a sinistra, lontana dalle alchimie di quella "fusione a freddo" di post-comunisti e post-democristiani, che con le correnti è stato anche il Pd dopo l’Ulivo prodiano. Un rinnovamento binario (rosso-verde) non del tutto chiaro nella sua concreta dinamica; e nell’impoverimento che una transizione ecologica senza aiuti statali farebbe rischiare proprio alle fasce più deboli della popolazione; e anche contraddizioni da chiarire, per esempio sulla guerra in quell’Ucraina che fu terra natale del nonno paterno.
Ora per Elly Schlein comincia un’operazione ancor più audace e insidiosa del percorso delle primarie. Tenere unito il partito, non tradire chi nella base l’ha scelta (soprattutto giovani e donne), evitando però la fuoriuscita degli elettori più moderati, liberal-socialisti già concupiti dal terzo polo centrista Renzi-Calenda, mentre i Cinquestelle sono ipotetici partner ancora troppo volubili. Per dimensioni, il mandato affidatole è relativamente forte. Ma sappiamo quanto tenaci possono essere anche le resistenze di un partito che rischia sempre di perdersi nel suo impulso autolesionista.