laR+ L’intervista

Università, piedi in terra e testa fra le nuvole

Aspettando il successore di Boas Erez, incontriamo il prorettore vicario Lorenzo Cantoni sull’Usi ‘sostenibile, perché ci occupiamo di generazioni future’

Lorenzo Cantoni, professore ordinario presso la Facoltà di comunicazione, cultura e società, oltre che direttore dell’Istituto di tecnologie digitali per la comunicazione
(Ti-Press)
14 ottobre 2022
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«Sono anche io molto curioso di sapere quando questo accadrà, come lei o forse di più, perché così saprò quando terminerà il mio incarico». Dall’addio di Boas Erez, non più rettore dallo scorso 9 maggio, alla guida dell’Università della Svizzera italiana (Usi) c’è Lorenzo Cantoni, che della stessa è professore ordinario presso la Facoltà di comunicazione, cultura e società, oltre che direttore dell’Istituto di tecnologie digitali per la comunicazione. Il prorettore vicario non è forse la persona adatta cui chiedere chi sarà il prossimo rettore, ma la domanda era imprescindibile. «Il processo è in corso – spiega – il Consiglio dell’università lo/la dovrà nominare, e se si tratterà di una persona attiva in ambito accademico, allora avrà presumibilmente bisogno di alcuni mesi per chiudere le attività in corso». Le voci di corridoio dicono ‘la prossima estate’. «Non sembra inverosimile quell’orizzonte, ma non posso garantire». L’occasione, al di là del toto-rettore, è anche quella per un bilancio di metà percorso, con Cantoni, e per un ‘volo a planare’ sull’ateneo.

Lorenzo Cantoni, cominciamo dalla notizia più recente: in base alle valutazioni di ‘Times Higher Education’, l’Usi è passata dalla fascia 301-350 alla fascia 201-250, su 1’799 atenei recensiti nel mondo, il che significa prestigio in aumento a livello internazionale. Un commento?

Siamo molto contenti, benché sappiamo – e non è arroganza – che questi ranghi internazionali trasformano i numeri in indicatori di realtà complessissime come quella di un’università. E mettere un’università in una lista ordinata è sempre un’operazione molto semplificante. Detto questo, i dati ci restituiscono il significato di performance molto positive, ci troviamo ora alla stessa altezza dell’Università di Ginevra. Rispetto alle università italiane, solo due sono sopra di noi, Bologna e la Normale di Pisa, considerata dal ‘Times’ come un’entità a parte. Sono numeri limitati, dicevo, ma sono anche sistemi di comparazione molto utilizzati oggi: un conto è guardare all’Usi dalla Svizzera, un altro è guardare all’Usi dalla Cina, e guardare da lontano rende indispensabili alcuni sistemi di comparazione, d’indicazione. Essere a livello europeo in tale posizione, in questo senso, ci permette di essere segnalati come un’università particolarmente attrattiva per pubblici anche lontani. Da questo punto di vista, per noi è un modo per emergere in una competizione accademica sempre più globale.

A ogni Locarno Film Festival, Marco Solari cita la manifestazione di cui è presidente insieme all’Università della Svizzera italiana quali momenti imprescindibili di apertura del Ticino all’esterno. Come si pone l’Usi nei confronti di questo recente ‘bisogno’ di territorio, anche mediatico, di riscoperta delle radici? C’è un rischio di ‘richiusura’ cui l’Usi deve fare fronte?

Se prendiamo l’International Outlook del ‘Times Higher Education’, abbiamo un punteggio di 99,5 su 100, siamo dunque considerati, a livello mondiale, tra le università più internazionali. Tornando indietro nel tempo, le università nascono nel Medioevo tremendamente internazionali, tant’è che con la dieta di Roncaglia, l’Imperatore Federico I Barbarossa fissa regole speciali per le persone che lavorano negli atenei, permettendo loro la libera circolazione, quella che comunemente riconduciamo a Schengen. Erano tempi in cui le città, se creditrici rispetto ad altre, potevano tenere in ostaggio cittadini della città debitrice finché i debiti non venivano pagati. Da lì nasce il detto ‘l’abito non fa il monaco’, l’escamotage di vestirsi con l’abito da chierico (usato dagli universitari) per garantirsi la libera circolazione. Questo per dire che uno dei concetti alla base delle università è che il sapere e la conoscenza devono poter girare liberamente, condivisi, da qui anche il concetto di pubblicazione. È vero che questo può sembrare in contrapposizione con la riscoperta locale, ma credo si possa trovare un equilibrio importante, nel senso che un’università nasce in un posto e in quel posto trova sue radici importanti, nutrendosene.

Chi fondò l’Usi, scegliendo di chiamarla Università della Svizzera italiana e non ‘del Ticino’, definì un luogo d’incontro. Credo che un’università debba riconoscere il proprio debito verso il territorio, a partire dal suo finanziamento: l’Usi deve al Cantone un quarto del proprio budget, e alla Confederazione un’altra parte importante, e quando io incontro qualcuno per strada a Ligornetto so che una parte del mio stipendio è pagata con i suoi soldi. Ma al di là dell’accountability, se ci fermassimo soltanto al territorio non faremmo del bene al territorio stesso, servito anche da altre istituzioni. Noi formiamo persone che andranno a lavorare a Hong Kong, in Sudafrica e negli Stati Uniti, persone che porteranno con sé nel mondo una parte di ticinesità, di Swissness, di svizzeritudine. Da quando sono prorettore per la formazione, nei giorni di benvenuto alle matricole chiedo sempre la presenza di rappresentanti di Ticino Turismo. Quella del territorio è una dimensione importante, perché se lo vivessimo come mera opposizione, credo faremmo del male al territorio stesso e all’università.

La teoria secondo la quale l’Usi serviva solo a istruire la futura classe bancaria dovrebbe essersi esaurita. Quanto fa, l’Università della Svizzera italiana, in chiave di pura divulgazione culturale?

Ogni anno eroghiamo circa un migliaio di corsi ai quali le persone possono iscriversi come auditrici/auditori, un altro modo di rendere il favore al territorio. In alcuni casi si tratta di opportunità vissute intensamente dalla cittadinanza, come le iniziative dell’Istituto di studi italiani (Isi), che riempie l’Auditorium. Abbiamo anche iniziato un dialogo, mi pare, molto costruttivo con i licei, con la nostra Facoltà di scienze informatiche che, in collaborazione con la Supsi, si occupa dell’abilitazione all’insegnamento di quella materia. L’Atte, per l’Università della terza età, ci ha chiesto del personale e abbiamo avuto risposta entusiastica di giovani ricercatori. Non posso dire che il dialogo sia perfetto, ma è iniziato, è attivo e ci piace molto.

Il periodo che l’attende, quello che porterà alla scelta del nuovo rettore, non può considerarsi pienamente transitorio: quali sono, guardando ai prossimi mesi, le sue aspettative e le sue intenzioni?

Nell’incontro d’inaugurazione dell’anno accademico proposi quattro punti, il primo dei quali è legato al ritrovarsi di questo ateneo con un prorettore vicario. In contesti del genere penso si tratti comunque di un’occasione per capire ‘che ci stiamo a fare’ come università, per riscoprire che siamo veramente una universitas di docenti e studenti, e non solo degli uni o degli altri, di gente che s’incontra perché interessata a sapere come stanno lo cose. Punto secondo è la formazione: l’università è nata in modalità lectio, ma non è solo lezione, è anche disputatio, luogo in cui si discute non con acredine o voglia di dominare, ma col desiderio di un dialogo, tanto più forte, il dialogo, quanto è affrontato a più voci. Terzo punto, oltre a formazione e ricerca, è il servizio al territorio: siamo in un luogo particolare, come possiamo aiutarlo a svilupparsi? Come restituiamo a questa istituzione che ci sostiene, ci supporta e in parte ci finanzia, tutto quanto riceviamo da essa?

Il quarto punto è rappresentato dagli studenti. Secondo il ‘MIT Press’ (unico editore universitario statunitense il cui catalogo è costituito da pubblicazioni scientifiche e tecnologiche, ndr), gli studenti si dividono in inerziali – coloro che vanno all’università perché non sanno cosa fare – e il nostro obiettivo in questo senso è aiutarli a trovare la loro strada, che potrebbe non essere l’Usi. Ci sono poi gli studenti transazionali, che vanno all’università per far carriera e guadagnare soldi, e possiamo anche essere soddisfatti per quanto accade loro. Ci sono poi gli ‘esplorativi’, che vanno all’università perché vogliono conoscere il mondo, che giungono qui da oltre cento nazioni, facendo di noi un microcosmo che il ‘Times Higher Education’ ha registrato molto chiaramente. Ci sono poi i ‘trasformativi’, o ‘trasformazionali’, coloro dentro i quali brucia il fuoco del sapere, quelli che sono disposti a cambiare sé stessi e magari aiutano a cambiare anche gli altri.

Una curiosità: quanti sono all’Usi?

Secondo quello studio sono pochi, un 10-12%, ma non avrebbe senso che fossero tutti così. Quello che però sto cercando di fare all’Usi è invitare studenti e docenti ad andare in quella direzione. Mi sta benissimo che tanti studenti siano qui perché studiare Finanza da noi può significare un buon posto di lavoro, ma vorrei che ci si appassionasse ancora al sapere. Il mio compito, da questo punto di vista, è aiutare l’università a riscoprire o riflettere ancora, come ha sempre fatto, sulla propria missione, su qual è la sua posizione nel mondo. C’è un’opera nel Campus Est, si chiama ‘L’orientamento nel cortile’, è una linea nord-sud disegnata nella piazza che si può anche intendere come una meridiana. Ecco, per poter disegnare una meridiana è necessario sapere come si muove il Sistema solare; per capire il tempo della Terra, dove tieni appoggiati i piedi, devi avere la testa tra le nuvole. L’università è esattamente questo, un luogo che da fuori può sembrare ‘tra le nuvole’, a tratti arrogante, torre d’avorio – e non è bene che sia così – ma che deve essere il luogo in cui cerchiamo di elaborare conoscenze, saperi, un luogo in cui misurare la Terra sapendo come girano i satelliti.

Vorrei usare una parola: sostenibilità, termine che è diventato ideologia, in un’epoca in cui tutto, vero o falso che sia, è ecosostenibile. Se c’è un’istituzione veramente ecosostenibile, quella è l’università, perché ci occupiamo delle generazioni future, il che significa chiedersi come potrà essere il pianeta in futuro, come andranno l’economia, la cultura, il futuro. L’università è un luogo in cui se la gente fa bene il proprio mestiere, senza arroganza, senza presunzione, seguendo un motto a me caro, ‘vula bass e schiva i sass’, può aiutare le future generazioni a lavorare in modo responsabile, competente. Capendo meglio il Cielo, aiuteremo anche la Terra.

Questo è quanto vorrebbe vedere anche in chi arriverà dopo di lei? Se le affidassero la scelta del suo successore, quali caratteristiche dovrebbe avere?

Non è compito mio quello di scegliere il prossimo rettore. Però sì, vorrei che avesse la sensibilità di riflettere sul senso ultimo di questo luogo, prima di interpretare questo compito – come successo per tutti coloro che qui si sono avvicendati, Baggiolini, Martinoli, Erez – secondo le sue modalità, intuizioni, stili differenti, con i suoi accenti e sottolineature. Ma dovrà comunque interpretare il compito di un’università, e nella misura in cui si dimenticasse di quel compito, rischierebbe di trasformarla in una scuola professionale un po’ chic, che non so quanto valga la pena frequentare.

Quanto e in che modo, per finire, un rettore deve relazionarsi con la politica? Il suo predecessore Boas Erez non ha mai lesinato prese di posizione e punti di vista, resi pubblici. Anche questo è un modo per non essere torri d’avorio, e giocarsi la partita nella società civile?

L’università è un luogo in cui si fa cultura avendo una propria posizione politica ed è importante che siano accolte tutte le posizioni. Mi vengono in mente studi su alcuni atenei nordamericani che dicono della presenza di una grande maggioranza della stessa parte politica. È legittimo che un ateneo possa prendere posizioni, a patto che non si schieri su posizioni partigiane. Un po’ come la Svizzera, terra nella quale le diverse componenti possono sentirsi libere di esprimersi.

La cosa vale anche per un rettore?

Sì, sebbene l’equilibrio di quanto una persona si esprima a titolo personale o come istituzione resti delicato. Ci sta che l’università svolga quel suo ruolo di sentinella, secondo alcuni un po’ profetico, ma starei attento a non schierarla: un’università schierata perde punti di vista importanti, perde sensibilità che devono poter contribuire. L’università dev’essere luogo di libertà e la libertà di parola dev’essere di tutti, ancor più all’interno di un luogo come questo. A questo proposito, la cancel culture e un certo politically correct mi lasciano molto perplesso. E in università, il non poter dire cose temendo il giudizio degli altri è già l’effetto di una censura, ancorché sofisticata, introiettata, non ufficiale. L’università è il luogo in cui cercare la verità, e confrontarsi su di essa.