Intervista all’economista che succederà a Boas Erez sul ruolo di intellettuale e di manager, le pressioni della politica e i molti cantieri aperti
«Sono qui per imparare. Vengo, ascolto, mi guardo in giro». È con occhio curioso e tono risoluto che si presenta Luisa Lambertini, dal prossimo primo luglio rettrice dell’Università della Svizzera italiana (Usi). Esperta di finanza internazionale e macroeconomia, ex nazionale italiana di pallamano, bolognese di nascita – come rivelano il cognome condiviso col cardinale e papa portato in tivù da Gino Cervi e la ‘zeta’ piacevolmente smussata – ma svizzera ‘d’adozione’, fino a oggi è stata vicepresidentessa associata per la formazione avanzata al Politecnico di Losanna (Epfl). Passerà dunque dalla direzione di una scuola che accoglie 2’400 dottorandi in 22 programmi a un ateneo che di studenti ne conta 4’190 in tutto, di cui 507 al dottorato: una realtà più piccola, ma in solida crescita, sia in termini di dimensioni che di offerta formativa e reputazione internazionale. La incontriamo durante una delle sue prime visite a Lugano.
Professoressa Lambertini, in Ticino la politica locale partecipa molto attivamente al dibattito sull’università. Al contrario, un rettore che si pronunci sulla politica locale è piuttosto malvisto: lo si è notato con le prese di posizione del suo predecessore Boas Erez quando è stato distrutto l’ex Macello. Ma un rettore è più un manager, un accademico oppure un intellettuale pubblico, tenuto a confrontarsi esplicitamente coi temi che attraversano l’attualità?
Il rettore è anzitutto un accademico, con il compito però di essere anche manager, una funzione cruciale per mandare avanti l’università. Per quanto riguarda la partecipazione al dibattito su temi di interesse pubblico, è chiaro che deve disporre di una certa sensibilità e può anche fornire un suo contributo alla discussione, ricordando però che lo fa non come privato cittadino, ma in quanto rappresentante dell’università. Quando si hanno funzioni importanti, d’altronde, è sempre molto difficile pretendere di parlare a titolo puramente individuale.
Questo vale anche per il corpo docente nel suo complesso? Che cosa direbbe se un suo collega dell’Usi andasse in giro a sostenere tesi controverse, ad esempio sulla guerra in Ucraina "iniziata dalla Nato" o sul vaccino anti-Covid come "siero sperimentale"?
Beh, quando si interviene in un dibattito pubblico come rappresentanti dell’università occorre farlo nel rispetto delle proprie funzioni e competenze specifiche, ad esempio nel caso in cui un immunologo si pronunci sul tema della pandemia. Se invece si interviene a titolo personale occorre specificarlo chiaramente per evitare confusione, fermo restando che il diritto alla libera espressione è ovviamente e giustamente tutelato dalla Costituzione svizzera.
Oggi anche nelle università si parla molto di governance e controlling, ovvero – più prosaicamente – di procedure di gestione e controllo aziendalistico-imprenditoriale. Questo pare essere stato uno dei motivi di maggiore frizione tra Boas Erez e il Consiglio dell’Università. Non teme di essere commissariata da un organo non accademico e più vicino alla politica? Chi ‘comanderà’?
Non ero qui quando sono emerse queste complicazioni, per cui mi riservo di entrare in questa realtà in modo costruttivo e senza idee preconcette. Sono contenta di lavorare con tutti gli organi istituzionali dell’Usi, nel rispetto delle aree di competenza di ciascuno. Anche alla luce del mio ruolo di vicepresidente associato all’Epfl, penso che la chiara definizione dei compiti sia la chiave del successo. Il consiglio è un organo di alta sorveglianza, il rettorato è una sorta di esecutivo: dividendosi in maniera chiara i compiti all’insegna del rispetto reciproco, credo che potremo lavorare bene.
Negli anni l’Usi è cresciuta molto in termini di studenti, offerta formativa e indirizzi di ricerca. Come intende dare continuità – o discontinuità – ai diversi cantieri, ad esempio quello dell’ospedale universitario?
Questa università è cresciuta a ottimi ritmi e mantenendo una grande qualità: chapeau. Ora si tratterà di chinarsi su cantieri aperti come quello biomedico che offrono grandi opportunità, analizzando bene le varie possibilità. In ambiti del genere – che richiedono grandi risorse – occorre anche essere pronti a sondare tutte le possibilità di finanziamento, dai fondi pubblici a quelli privati e filantropici, anche mettendosi in rete con altre università. Altrimenti si rischia di mettere a tutti questi progetti delle scarpe un po’ strette.
Porta da Losanna una grande esperienza nello sviluppo della ricerca. Ora però le università svizzere scontano l’esclusione dai programmi di ricerca europei e dai relativi fondi. Il tutto proprio mentre l’Usi cerca di fare il ‘grande salto’ sulla scena internazionale. Come si affronta questa situazione?
Con un po’ di dolore, sinceramente. L’Usi ha ottenuto finanziamenti europei in numero e importi ragguardevoli e l’impossibilità di far domanda per ulteriori fondi è qualcosa di molto negativo, come d’altronde lo è per l’intera accademia Svizzera, il cui punto di forza è la capacità di attrarre talenti da tutto il mondo: senza certi tipi di risorse si rischia anche di perdere quell’attrattiva, con un conseguente impatto negativo sulla ricerca, l’innovazione e infine la stessa economia svizzera. Mi impegno quindi a collaborare con gli altri atenei per portare questo messaggio a livello federale, alla ricerca di una soluzione praticabile per il rientro della Svizzera nel programma Horizon 2020. Nel frattempo occorrerà guardare a fonti di sostegno alternative, come quelle federali, che però non garantiscono lo stesso tipo di possibilità e di integrazione nel tessuto della ricerca internazionale.
Un’altra sfida per l’Usi è il posizionamento sulla mappa nazionale. I numeri più recenti dicono che su cento studenti 24 vengono dal Ticino, 46 dall’Italia, solo 10 da altri cantoni e 20 dal resto del mondo. Perché dalla Svizzera romanda o tedesca si dovrebbe venire a studiare a Lugano?
Per l’elevata qualità dell’istruzione che possiamo garantire e per la reputazione dell’Usi. Certo, occorre essere consci del fatto che l’insegnamento in lingua italiana prevalentemente nei programmi di bachelor può limitare il numero di studenti che parlano altre lingue. Però master, dottorati e altri programmi sono in inglese e offrono un enorme potenziale anche per attrarre studenti dal resto della Svizzera.
Negli atenei svizzeri le donne costituiscono in media il 41% del corpo docente accademico. All’Usi la percentuale si ferma però al 34%. Quali sono i suoi obiettivi in materia?
Vorrei veramente che le offerte rivolte annualmente al corpo accademico permettessero di impiegare donne nel 40-50% dei casi. Non è facile e servirà il sostegno di tutti i colleghi, ma non è impossibile. Vorrei anche promuovere più in generale le carriere femminili, rivolgendomi alle studentesse per agevolare carriere internazionali e far conoscere ‘role model’ che aprano loro nuovi orizzonti. Un po’ come avevamo fatto all’Epfl con la Wish Foundation, fondazione finanziata con un fundraising autonomo rivolto a benefattori esterni e finalizzata ad esempio a offrire borse per lo studio all’estero alle ragazze. Queste e altre iniziative – come i premi alle donne che si sono distinte nell’attività di ricerca e professionale – offrono un messaggio di supporto e motivazione che ritengo molto positivo.
Non si deve però cambiare anche la mentalità un po’ ‘patriarcale’ di certi maschietti in cattedra?
Mi auguro che questo problema non si ponga e che si confermi il rispetto di tutte e tutti, a prescindere dal genere, dall’età e da altre variabili.
Nella sua prima videopresentazione ha enfatizzato la necessità di preparare gli studenti al mondo del lavoro. Ma davvero all’università si va per imparare un mestiere?
No, all’università si viene per acquisire quel sapere e quelle competenze che poi consentono anche di gettare le fondamenta per una carriera. L’esperienza universitaria mira anzitutto a creare un capitale umano, tanto che io stessa a mia figlia dico sempre: la cosa che devi fare è studiare, perché quello non te lo toglie più nessuno. Non si arriva qui per imparare un mestiere specifico, ma per acquisire gli strumenti che permettono poi di intraprendere una carriera e anche di cambiarla con una certa facilità, quando auspicabile o necessario.
Uno dei maggiori partiti locali, la Lega dei Ticinesi, desta regolarmente polemiche contro gli italiani e contro gli intellettuali (oltre che contro il suo predecessore): da bolognese e da intellettuale, la cosa la preoccupa?
Non credo di potermi ancora pronunciare su aspetti specifici. In generale, trovo che l’apertura della Svizzera – a livello economico, ma anche di accoglienza di profili internazionali – sia ammirevole e costituisca la chiave del suo successo. Lo si vede anche all’Usi e all’Epfl: in entrambi i casi la maggior parte degli studenti viene dai Paesi confinanti. Per me lo scopo dell’università è attirare le menti migliori, elevando il livello delle classi e del corpo docente in uno scambio che ha nell’internazionalità un elemento di forza. Così come è positivo che chi viene da fuori rimanga poi qui a sviluppare il suo capitale umano, mettendolo a disposizione delle realtà locali.
Un’ultima curiosità: non sente mai un conflitto tra le sue responsabilità manageriali e la vocazione per il mondo della ricerca e dell’insegnamento, in un certo senso più ‘quieto’?
Quella di conciliare queste due dimensioni è un’esigenza che sento molto, tanto che nei momenti liberi cerco sempre di ritagliarmi tempo per la ricerca. Comunque non smetterò certo né di insegnare, né di fare ricerca: è questo il modo migliore per rimanere accademica ‘nella testa’.