laR+ Il commento

La sinistra e ‘quel’ pacifismo

Una parte dello schieramento progressista, spesso impregnata di antiamericanismo, continua a invocare il disarmo. Ma perché non lo chiede a Putin?

In sintesi:
  • Il problema non è il pacifismo in sé, ma 'quel' pacifismo che spunta sempre fuori quando si tratta di pretendere la resa ucraina
  • C’è ancora una certa sinistra che vive in un passato fatto di rivoluzioni tropicali e ’Yankee, go home’, e non accetta il fatto che stavolta la protesta non vada diretta contro la Casa Bianca, bensì contro Cremlino
(Keystone)
12 ottobre 2022
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Il problema non è il pacifismo in sé. È legittimo auspicare il primato della nonviolenza, e poi chi è che non vorrebbe la pace? Qualche sadico torturatore di gattini, al massimo. Il problema è ‘quel’ pacifismo: quello che si manifesta con maggior clamore solo quando la Russia è in difficoltà, facendo da cassa di risonanza per la propaganda del Cremlino e finendo per imbrattare i propri principi.

Lo avevamo visto all’inizio della guerra in Ucraina, quando di fronte all’inattesa resistenza ci si affrettò a dire che i partigiani – perché questo sono – avrebbero fatto meglio ad arrendersi, altrimenti sarebbero rimasti schiacciati sotto i cingoli degli inarrestabili carri armati di Putin. Un’affermazione che ci si aspetterebbe da Neville Chamberlain più che da Gandhi, subito smentita dalla volontà e dalla condotta degli stessi ucraini. E ora che Kiev sta respingendo il nemico, riprendendosi casa propria, chi vorrebbe fermarla grida che "siamo alla pazzia": "Vogliamo l’olocausto nucleare?", ci si chiede anche in Ticino. Naturalmente la domanda non è rivolta a Putin e l’indignazione, invece che alla pioggia di missili russi su scuole giardinetti strade, è rivolta al boicottaggio ucraino d’un ponte utilizzato per questa occupazione criminale.

La soluzione quale sarebbe, invece? Ah, già, che scemo: le manifestazioni in piazza e le conferenze internazionali di pace. Poi la diplomazia, ovviamente: come avevamo fatto a non pensarci? Peccato solo che il risultato di qualsiasi dialogo diplomatico dipenda dagli equilibri sul campo, al momento inaccettabili.

Ma ecco un’altra stranezza. Perché ‘quei’ pacifisti si rivolgono alle forze occidentali e mai al Cremlino? Ci è voluto Achille Occhetto – assennato curatore fallimentare del Partito comunista italiano, uno che viene sempre voglia di andarlo a spolverare con un piumino – per ricordare che "il vero pacifismo chiede il cessate il fuoco all’aggressore" e "durante la guerra del Vietnam, il giusto slogan in tutto il mondo era ‘Yankee, go home!’. Trovo singolare che non ci sia nessun movimento che oggi dica: ‘Putin, go home’". Con lui il mite e umanissimo Bobo di Sergio Staino, che tra i suoi mille tormenti d’uomo di sinistra non contempla certe ambiguità: scendere in piazza per la pace gli va bene, ma solo "se la piazza è davanti all’ambasciata russa".

Il problema è che ‘quei’ pacifisti – proprio come una certa destra – non ammetteranno mai l’unilaterale responsabilità del Cremlino in questo macello. C’entra spesso una liliale dabbenaggine, anche se in alcuni casi è lecito temere interessi più turpi. C’entra soprattutto un antiamericanismo troppo viscerale, troppo cieco per capire che stavolta è Mosca, non Washington, ad avere torto marcio. Al punto che si improvvisano pacifisti anche soggetti infatuati fino a ieri dalle divise e dai kalashnikov del socialismo tropicale, quelli che di solito portano in processione le icone di Che Guevara, guerrigliero che per i suoi ideali ha ucciso ed è morto d’armi (che poi in quella sinistra non manchino le piroette mistiche, a mezzo tra il sufismo e i sofismi, lo mostra la recente passione per i discorsi del Papa e le prime pagine dell’Osservatore romano).

E pazienza se fino all’altro giorno si intenerivano a stonare ‘Bella ciao’ a tutte le feste popolari, commossi un po’ dal Lambrusco, un po’ dal ricordo della resistenza partigiana: adesso che la resistenza la sostengono anche gli americani, non va più bene. Meglio ‘quel’ pacifismo.