Nella rosa del Bellinzona abbondando i giocatori provenienti da un Paese legato a doppio filo alla nostra regione
Sapere che il Bellinzona si ritrova imbottito di calciatori uruguayani è una manna per chi come me ha cominciato a seguire seriamente il calcio proprio grazie alla Celeste. Nelle vacanze di Natale dell’anno scolastico 1980-81, quando ero in quinta elementare, per festeggiare i 50 anni dal primo Mundial, l’Uruguay organizzò il Mundialito, torneo riservato alle squadre che fin lì avevano vinto almeno un titolo iridato. Insieme ai padroni di casa erano dunque presenti Italia, Brasile, Germania Ovest e Argentina, oltre all’Olanda al posto dell’Inghilterra che aveva declinato l’invito. Vedere 7 partite in diretta tv nel giro di 11 giorni era qualcosa che, all’epoca, non capitava mai: ne feci una scorpacciata e mi innamorai della Nazionale uruguayana e di campioni come Victorino, Paz e Morales. A tavola, racconto l’aneddoto al 32enne Pablo Bentancur junior – Ceo dell’Acb – e al resto della nutrita colonia ‘oriental’ residente quest’anno all’ombra dei Castelli o nelle immediate vicinanze.
«Fu una cosa abbastanza normale che a inventarsi il Mondiale di calcio, alla fine degli anni 20, fossimo proprio noi uruguagi», mi spiega il dirigente. «A quell’epoca dominavamo, avevamo già vinto sei volte la Copa América e in due occasioni l’Olimpiade, che valeva in fondo come il Mundial». Il torneo di calcio a 5 cerchi, del resto, a quei tempi era organizzato direttamente dalla Fifa, ed è per questo motivo che ancora oggi il governo del calcio mondiale consente che sulla maglia della Celeste campeggino ben 4 stelle (2 Mondiali e 2 Olimpiadi). «A portare il calcio in Argentina e nel nostro Paese erano stati gli inglesi», continua Pablo junior, «che laggiù avevano grandi interessi commerciali, specie nei cereali e nel bestiame da carne. I dirigenti britannici si portarono dietro palloni e scarpe bullonate e insegnarono alla nostra gente a giocare. Nella finale del primo Mondiale, battemmo proprio l’Argentina – nostra acerrima rivale – che avevamo già superato nella finale olimpica del 1928 ad Amsterdam». Nel 1924 a Parigi era stata invece la Svizzera ad arrendersi agli uruguagi all’ultimo atto. Dunque è davvero lunga la storia che lega il nostro Paese all’Uruguay, terra dove sbarcarono moltissimi emigranti elvetici, fra cui parecchi ticinesi. A proposito – chiedo ai ragazzi –, sapete chi allenava quell’Uruguay che vinse il Mundialito nell’80? Roque Maspoli. Tranne un paio di loro, tutti gli altri ammettono di non averlo mai sentito nominare. Bentancur junior allora spiega loro che Maspoli e Ghiggia – originario di Caslano il primo e di Sonvico il secondo – furono gli eroi del Maracanazo, il match contro il Brasile che regalò all’Uruguay il suo secondo titolo mondiale nel 1950. I ragazzi annuiscono, ma per questi ventenni si tratta di roba lontana come il Medioevo. In quella squadra, aggiungo, c’era pure il divino Schiaffino. Gran parte dei presenti, pur conoscendone il nome, credeva che El Pepe facesse parte dei campioni del 1930. Ma come – dico –, non sapete collocare nel tempo il più forte giocatore uruguayano della storia? A questo punto partono fischi nella mia direzione. Non scherziamo – mi ammoniscono –, il migliore di tutti è stato ed è tuttora Luis Suarez, seguito da Forlan e Cavani. Tutti si trovano concordi con questo podio, formato dagli idoli della loro epoca. Solo uno, forse impietosito dal vecchietto che gli parla, cita Enzo Francescoli e il Pato Aguilera, ma come se stesse ripescandoli da un album dei ricordi scovato nella soffitta dei nonni.
Normale e giusto che questi giovani calciatori – simpatici e molto educati – più che sul passato siano concentrati sul presente e su una carriera sportiva che, per il momento, li ha portati pieni di ambizioni e speranze nella nostra regione. Qualcuno, come il capitano Sergio Cortelezzi, conosce già bene il nostro Paese: «Sono arrivato nel 2014 e sono passato da Chiasso, Lugano, Le Mont sur Lausanne, Wil e Bellinzona. Ho giocato e vissuto in ogni regione linguistica, ma il Ticino è quello dove noi uruguagi, per via di alcune affinità caratteriali, ci troviamo meglio». L’Uruguay, solo 3,5 milioni di abitanti, produce più campioni di nazioni 10 o 20 volte più popolate. Qual è il segreto? «Dipende dall’importanza che il ‘fùtbol’ ha nel nostro Paese, dove il primo sogno di ogni bambino è diventare calciatore. Da noi l’economia non gira troppo bene, quindi il calcio diventa uno sbocco lavorativo interessante. In Svizzera invece per i ragazzi il pallone è solo uno sport. In Uruguay c’è dunque estrema competitività già fra i piccolissimi, e ciò aiuta a far emergere i migliori, specie a livello mentale. A parità di tecnica, un uruguayano svetta sugli altri proprio per questa forza nel carattere, per la voglia che ci mettiamo, insomma per la nostra famosa ‘garra’». Qualche esperienza in Ticino l’aveva già fatta pure il centravanti Rodrigo Pollero, anch’egli transitato in passato dal Chiasso, che lo aveva acquistato dagli argentini dell’Arsenal di Sarandì. «Sono felice di essere tornato in un luogo dove la lingua è molto più facile da capire e da imparare rispetto a quanto mi succedeva a Losanna, ma soprattutto a Zurigo. Questo è un posto molto bello e tranquillo, l’ideale per viverci con la famiglia: fra poche settimane mia moglie mi renderà padre per la prima volta». Auguri vivissimi.
Fra coloro che in Ticino non erano mai stati c’è Cristian Souza, esterno d’attacco dal destro vellutato. «A Bellinzona sto bene, anche se è molto diverso dal Sudamerica. Qui c’è un benessere che laggiù non vedi, e una sicurezza inimmaginabile a casa nostra. Non ero mai stato in Europa, ma dall’Uruguay me ne sono andato presto, per giocare dapprima nel massimo campionato messicano, nel Pachuca, e poi nella serie cadetta peruviana. Qui in Ticino ho trovato molti uruguayani e un paio di argentini: è un bene, è garanzia di migliore intesa, sia in campo sia fuori».
Gli fa eco il trequartista Thomas Chacon, fisico minuto e tecnica sopraffina, il cui permesso di lavoro è arrivato solo poche settimane fa: «Gli altri uruguagi mi aiutano a integrarmi, tutti abbiamo le stesse abitudini e parliamo la stessa lingua. Siamo un gruppo unito, usciamo spesso a cena, chiacchieriamo e beviamo mate». Sul tavolo, davanti a lui, thermos, cannuccia e zucca in alluminio col proprio nome inciso sopra: ogni momento è buono per buttar giù un sorso della bevanda nazionale. «Prima di venire qui, ho giocato un anno e mezzo negli Usa, nel Minnesota United. La Mls oggi è una lega in crescita: fino a poco tempo fa era un torneo dove le carriere terminavano, ora invece è un campionato che può fungere anche da trampolino di lancio». Spesso si sente dire che l’Uruguay è la Svizzera del Sudamerica: condividete? Solo per le dimensioni – mi assicurano – e forse per il carattere delle persone, dato che fra i sudamericani noi siamo quelli meno espansivi. Forse una volta si faceva questo paragone anche per via del tenore economico – aggiungono –, ma oggi non vale più, da un bel pezzo l’Uruguay non è più un Paese florido come un tempo.
Ma c’è qualcosa, in Ticino, che non vi piace? «Il suono delle campane il mattino prestissimo, una vera tortura», dice il difensore Guillermo Padula, nato a Colonia del Sacramento, la più antica città dell’Uruguay. «E poi il traffico: qui circola una quantità pazzesca di automobili. Guidando, passo la maggior parte del tempo fermo in colonna, specie per via dei cantieri stradali, che sono moltissimi. Una volta, per evitare una coda ho preso ciò che credevo una scorciatoia: ho trovato un passaggio a livello con la sbarra abbassata, saranno passati 4-5 treni nelle due direzioni e mi è toccato stare fermo minimo mezz’ora! Cosa vi manca di più del vostro lontano Paese? «Amici, famiglia e i nostri leggendari ‘asados’», risponde con gli occhi quasi lucidi pensando alla carne alla griglia. «In quello siamo fortissimi anche noi», tiene a far sapere Isaac Monti, l’infiltrato argentino a questo pranzo dedicato al ‘fùtbol’ uruguagio. «Anch’io ho nostalgia delle nostre grigliate», dice il difensore cresciuto nel Boca Juniors. «Altrimenti, non mi manca nulla: la Svizzera è pulita, organizzatissima, la gente è educata e rispettosa. Sono qui da febbraio, sto imparando la lingua. Conoscevo poco del calcio svizzero, devo ammetterlo, ma ricordo bene quando noi argentini incontrammo la Nazionale rossocrociata al Mundial del 2014». Colgo la palla al balzo, e chiedo un pronostico su Qatar 2022. «L’Argentina è fra le candidate al successo finale, anche perché finalmente giochiamo bene anche come squadra, oltre ad avere molta qualità nei singoli. Sarà un torneo equilibrato, ma credo che Messi stavolta ci regalerà la Coppa». «Saremo competitivi anche noi ‘orientales’», assicura il roccioso difensore Franco Romero, pure lui aggregatosi al gruppo solo di recente e proveniente dal massimo campionato greco. «Il torneo sarà molto competitivo: noi uruguagi abbiamo una rosa ringiovanita, attorno a punti fermi come Cavani e Suarez, il quale quest’anno è tornato a giocare in patria, nel Nacional Montevideo, una cosa importante per tutto il movimento del ‘fùtbol’ uruguayano. Di superare il primo turno in Qatar abbiamo grandi chance e poi nel ‘mata-mata’ (le gare a eliminazione diretta) può succedere di tutto, non escludo che si possa avanzare ulteriormente».