A colloquio con l’affermata traduttrice ticinese. ‘Nel mio lavoro c’è una componente soggettiva; io accordo l’orecchio a ciò che sento.’
«Era comprensibile, quel che ho detto prima?» Nello sguardo un mix di preoccupazione e auspicio di esser riuscita a trasmettere il suo mondo. Che è fatto sì di parole, tante; ma pure di molto altro. Maurizia Balmelli spiazza chi del traduttore si è fatto un’idea, sempre che se ne sia fatta una, di una sorta di matematico della lingua. La traduttrice ticinese parla con gli occhi, i gesti, i sorrisi e pure con le pause (poche, mai a caso) nei suoi racconti.
In che lingua pensa Maurizia Balmelli?
Penso in italiano, è la mia lingua. Vivendo a Parigi, però, quando parlo da sola ad alta voce e lo faccio, come capita a tutti - ride - spesso lo faccio in francese.
Quando si traduce, si pensa al lettore? Se sì, cosa si pensa?
Eh… Buona domanda. Quando feci la mia prima traduzione, avevo gli attacchi di panico pensando (ingenuamente, perché poi ho capito che i lettori in realtà sono assai meno) "accidenti questo libro, queste parole li leggeranno migliaia di persone. Poi, però, a un certo punto poi mi sono proprio detta che non avrei più dovuto riflettere sui lettori. In realtà io lo so che ci penso costantemente; poiché quando traduci, stai comunicando.
Credo che, sebbene in maniera molto, molto astratta, un’idea di interlocutore non ti abbandona mai, in quanto comunque stai usando la parola, compiendo un gesto di trasmissione. Quindi, per quanto in maniera implicita, non sei solo: c’è un altro. C’è l’altro da cui arrivi, che è l’autore; e poi c’è l’altro a cui vai, che è il lettore, presente però in maniera astratta.
Ogni tanto, nei momenti di traduzione di maggior difficoltà e dunque di fragilità, il lettore mi si incarna nell’editor. Ecco: parliamo dell’editor, figura che ha un ruolo fondamentale. Tu, traduttore, sei solo: fai questa traversata atlantica che è la traduzione, tutta per conto tuo. E però, un po’ come quelli che compiono le imprese in solitaria in barca a vela, che dispongono di un intero team di supporto, che non vediamo, ma che li accompagna, anche il traduttore ha un team, nella persona dell’editor. Se non è bravo, l’editor può essere un peso; ma se è in gamba, è un punto di riferimento. Ancor più importante dell’autore stesso. Perché con l’editor tu condividi la lingua, quindi lui sa di cosa si sta parlando e con lui si può discutere di minuzie, di cui non puoi dibattere con l’autore.
Di lei si dice essere una personalità vivace. Per il lavoro di traduttore la vivacità è un valore aggiunto, perché magari permette di vedere o cogliere più sfumature, oppure è una difficoltà, in quanto complicata da contenere?
Entrambe le cose. È una caratteristica a doppio taglio - riflette a lungo -. Ad esempio io faccio digressioni all’infinito, che è uno degli aspetti dell’essere vivace. È peraltro vero che nella professione di traduttore non ti puoi muovere in linea retta, perché non c’è un’autostrada.
Personalmente, nella vita e quindi anche nel mio approccio al lavoro, più che vivace mi definirei sensuale. Io opero enormemente con i sensi e nella traduzione c’è una componente molto soggettiva e impalpabile, fatta di sensazioni appunto e di percezioni. Di me la traduttrice italiana Susanna Basso, quando vinsi il Premio Gregor von Rezzori 2010 per la traduzione di ‘Suttree’ di Cormac McCarthy, disse che sono la traduttrice dall’orecchio assoluto.
Non so se ho l’orecchio assoluto. È però vero che accordo l’orecchio a ciò che sento e questa non è un’operazione razionale. E chissà, forse, il talento risiede lì.
La traduzione cosa dà a Maurizia Balmelli come persona?
Notti insonni - risponde d’istinto con una gran risata - E lo può scrivere! Mi dà pochi soldi e può scrivere anche questo. Inoltre mi dà molti amici immaginari. Mi rendo conto che ho un altrove: un mondo popolato, un boschetto della mia fantasia come diceva ‘Elio e le storie tese’, nel quale ci sono i personaggi dei libri che traduco; e ci sono anche le atmosfere e i mondi degli autori. Che poi vado ad abitare. Di conseguenza spesso sono un po’ sfasata: soprattutto quando faccio lunghe immersioni e lavoro tanto, sono più ‘di là’ che ‘di qua’; con un ‘di là’ diverso per ogni autore e ogni romanzo.
È qualcosa che fa anche il lettore; con la differenza che i tempi del lettore sono relativamente brevi, mentre quelli del traduttore sono dilatatissimi e portano a un’immedesimazione molto forte.
Le porto due esempi. Durante la revisione (che è stata molto sostanziale, quindi una sorta di co-traduzione) de ‘La strada’ di Cormac Mc Carthy, arrivata al momento in cui il padre muore, ricordo che scrivevo disperata alla casa editrice Einaudi, pensando al bambino che sarebbe rimasto solo. E Sally Rooney, che ritengo una grandissima scrittrice, a me fa stare malissimo. In particolare mi fa stare malissimo la sua capacità spietata di fotografare la deriva sociale, gli zombie che siamo. Le influencer di Instagram diranno che i suoi libri sono storie d’amore. No, non sono storie d’amore! La storia d’amore è un veicolo, per raccontare una condizione di smarrimento esistenziale. L’autrice fa questo anche con la lingua, che è povera e fattuale. Tradurre lei, mi faceva arrivare tutta l’alienazione della nostra epoca. Rooney ‘apparecchia storie’ e personaggi, per dire in realtà molto altro. Ed è quell’altro lì, che da traduttore fa mancare il fiato.
È un fiume in piena. Di quelli che non travolgono, bensì dai quali vorresti farti trasportare ancora e ancora. Anche se non hai letto ‘Ermellino bianco e altri racconti’ né ‘Cuore di bestia’ della scrittrice svizzera Noëlle Revaz e dunque non sai cosa abbia comportato tradurne un francese considerato intraducibile. «Spero di essere ‘seguibile’ da chi non fa questo lavoro». Maurizia Balmelli, tra le più apprezzate traduttrici letterarie di lingua italiana, è stata ospite sabato di un incontro organizzato dalla Libreria Casagrande Bellinzona nell’ambito della campagna ‘Liber’. Occasione – hanno spiegato i redattori Matteo Terzaghi e Magda Mandelli – per festeggiare il Premio speciale di traduzione dell’Ufficio federale della cultura di cui la locarnese è stata insignita nel 2022. «Sono emozionata» ha esordito colei che ha tradotto oltre cento libri dal francese e dall’inglese, dando voce - tra i molti - a Cormac Mc Carthy, Agota Kritof, Emmanuel Carrère, Martin Amism, Sally Rooney.
«Io scrivo. E il mezzo è l’italiano. Anzi gli italiani. Plurale. Quelli attraverso cui mi sono mossa partendo dall’italiano ticinese, che non è come nessuno di quelli in Italia. Quelli dialogano, il ticinese non ha la loro porosità. La mia forza sta nell’avere meno automatismi rispetto agli italiani e di aver casomai acquisito i loro. "Lei scimmiotta", mi sono sentita dire. No: compongo, con tutto il materiale forgiato e raccolto negli anni». Una messa a fuoco continua, «perché la lingua è un organismo vivo e, come la chitarra che si scorda, lo devi accordare regolarmente». Più che un incessante compromesso, come vuole uno dei luoghi comuni, per Balmelli la traduzione è «muoversi in turbolenze continue e un lavoro di compensazione». E sì, ci si rende conto quando un’interpretazione diventa personale. Ma se così non è, «non c’è traduzione. E se c’è qualcosa di intraducibile, allora tutto è intraducibile. Perché dove lo metti il cursore? Bisogna usare la propria lingua per appropriarsi di quella di quell’altro. Succede sempre. E ne deve uscire un’alchimia».