Ritratto del c.t. della Spagna che stasera a Ginevra affronta la Svizzera nel terzo impegno di Nations League
Boston, Usa 94, ultimissimi minuti del quarto di finale fra Spagna e Italia. Su un cross dalla destra di Goikoetxea, Luis Enrique in mezzo all’area si lancia verso il pallone che potrebbe regalare il 2-2 alle Furie Rosse. A Tassotti, che in quel momento corre due volte più lento, viene la bella idea di fermarlo con una gomitata criminale. Forse, oltre a impedirgli di segnare, voleva pure regalargli un naso brutto come il suo. Sta di fatto che glielo spappola, così come il labbro superiore. Il rigore è palese, ma il magiaro Puhl volta la testa dall’altra parte. Sembra tornargli la vista solo per redarguire il povero Luis Enrique, quando legittimamente osa far valere le sue ragioni. Poco dopo fischia la fine, decretando l’ingiusta eliminazione degli iberici, e la Fifa come premio lo designa per dirigere la finalissima, dove ritroverà proprio gli azzurri. Roba da matti. L’immagine di Luis Enrique incolpevole, sanguinante e sofferente – ma in grado di rialzarsi e riprendere a combattere contro ingiustizie e malasorte – diventerà rappresentativa del suo carattere e delle tragedie ben più gravi che il destino, con lui davvero infame, deciderà di mettere sul suo cammino.
Capacità di reagire perfino ai colpi più duri, ecco cosa viene in mente quando si pensa a Luis Enrique Martinez Garcia, allenatore ovunque conosciuto soltanto coi primi due dei suoi quattro nomi. Paradigma dell’hombre vertical, al c.t. iberico tutti riconoscono da sempre lealtà, coraggio, dignità e attributi. Oltre, naturalmente, a sapienza tecnica e tattica, doti che mostrava già in campo prima che si sedesse in panchina. Capace di giostrare sia sulla fascia sia più accentrato, il cinquantaduenne asturiano è stato fra i centrocampisti più prolifici del calcio spagnolo. Ma il suo contributo andava ben al di là dei gol realizzati. Grinta, polmoni, piedi educati e leadership indiscussa, infatti, ne facevano un punto di riferimento indiscutibile a Gijon come al Real, al Barça come in Nazionale.
Con la maglia dello Sporting debutta diciannovenne contro il Malaga, i biancorossi perdono in casa 1-0, ma il pubblico del Molinon, lo stadio più antico di Spagna, riconosce subito nel centrocampista esordiente il condottiero che aspettavano da anni. Purtroppo però la gioia dei tifosi dura poco: davanti alle offerte del Real Madrid è difficile resistere, sia per il ragazzo sia per i dirigenti, che danno l’ok al trasferimento per l’equivalente di 3 milioni e mezzo di franchi. È il 1991, sulla panca delle Merengues siede lo jugoslavo Antic, che schiera Luis Enrique in un ruolo poco adatto alle sue caratteristiche. A fine stagione, ai madridisti senza titoli non resterà che ammirare invidiosi i trionfi del Barcellona di Cruijff, che vince la Liga ma soprattutto la prima Coppa dei campioni della storia blaugrana. Va un po’ meglio con l’avvento di Benito Floro, biennio in cui arrivano Coppa di Spagna e Supercoppa nazionale, ma sarà soltanto con Jorge Valdano in panchina che, finalmente, i Blancos tornano a conquistare un campionato che mancava ormai da un lustro. Il contributo di Luis Enrique è determinante, ma l’anno successivo, per lui come per tutti i suoi compagni, si rivela fallimentare. E il presidente Sanz, troppo frettolosamente, lo lascia libero di firmare proprio con gli arcirivali del Barcellona. Un’avventatezza di cui, immaginiamo, si sarà certo pentito.
Bobby Robson fa presto di Luis Enrique un elemento imprescindibile: saranno 17 i suoi gol al termine di una stagione che ai catalani, rafforzati da Ronaldo il Fenomeno, frutterà un paio di trofei nazionali ma soprattutto la Coppa delle Coppe. Ancor meglio andrà l’anno successivo, con l’avvicendamento in panca fra l’inglese e Louis Van Gaal, che porterà in bacheca, anche grazie alle 25 reti dell’asturiano – ormai divenuto capitano – Liga e Supercoppa europea. Seguirà un quinquennio senza successi, caratterizzato da un turbinio di cambi di allenatore: Serra Ferrer, Rexach, di nuovo Van Gaal, di nuovo Antic e infine Rijkaard. Nomi di tecnici che elenchiamo – come tutti gli altri nominati fin qui – non certo a fini statistici, ma perché Luis Enrique durante l’intera sua carriera ha studiato da allenatore, e c’è da scommettere che avrà osservato attentamente il lavoro di ognuno di loro, cercando da tutti di ritenere il meglio e scartare la pula. Insegnamenti che metterà a frutto fin dalle primissime esperienze in panchina, dal triennio al Barça B alla sfortunata stagione alla Roma, dove lo trattano come fosse un ritardato e da dove leverà le tende rinunciando a un anno di ingaggio a 3 milioni di euro: hombre vertical, appunto.
Ricomincia subito a Vigo, salva senza affanni il Celta e poi fa ritorno al Barça, stavolta per guidare la prima squadra, a cui regala un triplete straordinario: il trionfo in Champions sulla Juve a Berlino lo proietta nel ristretto novero degli allenatori leggendari. Un paio d’anni dopo accetta la proposta della Federazione spagnola, che dopo il Mondiale in Russia gli offre la panchina che Fernando Hierro ha occupato soltanto per 1 mese. Svolge un ottimo lavoro, ma meno di un anno più tardi rassegna le dimissioni per gravissimi motivi personali: sua figlia Xanita, 9 anni, ha un tumore alle ossa, e lui vuole starle vicino. La piccola, purtroppo, perderà la sua battaglia, gettando il tecnico asturiano e tutta la sua famiglia nel peggiore dei drammi possibili. Il colpo potrebbe stroncare chiunque, ma non Luis Enrique, che facendo ricorso alle sue infinite risorse caratteriali, elabora al meglio il lutto, lo trasforma in forza e, nel giro di qualche mese, riprende il comando della sua Nazionale, guidato e sostenuto naturalmente dal ricordo e dall’esempio della sua sfortunata bambina.