Ecco l’equivoco di fondo: un’università che vive sé stessa come azienda, che misura la propria efficacia in termini di iscritti e soddisfatti
L’Università della Svizzera italiana e il suo rettore si separano anzitempo. Indubbiamente, è una notizia. La Commissione di controllo su Usi e Supsi esprime sorpresa (ma non troppa). E (almeno) un professore si è sentito autorizzato a far sentire la propria voce, richiamando la necessità di una riflessione su quale sia il ruolo dell’Università e quali i ruoli al suo interno (laRegione, 30 aprile). Comunque, la separazione tra l’Usi e Boas Erez non crediamo vada drammatizzata, soffocando un’autentica riflessione, da estendere alla Supsi, su ciò che oggi un’Università vuole essere. Del resto, su queste colonne ci è capitato di considerare con un certo stupore alcune uscite pubbliche del rettore: non tanto le opinioni espresse, quanto la solidità delle sue argomentazioni.
Ad ogni modo, per fortuna, la Commissione non può entrare nel merito delle dimissioni del rettore o del suo allontanamento (ognuno scelga la definizione che ritiene più calzante). Eppure qualcosa dice, per bocca del suo presidente (laRegione, 28 aprile). Incomprensioni, nuove figure organizzative, la gestione della pandemia… Comunque, un esito spiacevole e inatteso, perché dopotutto le cose andavano al meglio. Dati alla mano: iscrizioni in costante ascesa, al pari della qualità dell’insegnamento.
E qui veniamo al punto, finora eluso. Soprattutto, ci pare, da chi all’Usi o alla Supsi ci lavora. Se, da un lato, ci si potrebbe chiedere quali siano gli strumenti a disposizione dei nostri parlamentari per misurare la qualità dell’insegnamento universitario, dall’altro si impone un dubbio: siamo certi che l’aumento delle iscrizioni – come l’apertura del nuovo campus/vetrina – vada accolto, a priori, come la prova della qualità dell’offerta formativa? Fatte salve le dovute distinzioni, chi ha conosciuto da dentro entrambe le istituzioni, potrebbe esprimere qualche perplessità in proposito. Al pari dei tanti insegnanti silenti che, in molte Università, oggi, si adeguano a una realtà di fatto insidiosa: quella per cui lo studente viene sempre meno considerato come tale, ma, piuttosto, in quanto fruitore pagante di un servizio; un cliente da assecondare.
Sta anzitutto in questo equivoco di fondo, crediamo, la perversione di un’Università che vive sé stessa come azienda, che misura la propria efficacia in termini di iscritti e soddisfatti, tanto più in realtà prive di una tradizione consolidata. Non ci diffonderemo qui sulle derive di un’istituzione i cui docenti giungono al punto da non sentirsi autorizzati a richiedere l’acquisto di libri di testo, ma devono affidarsi a fotocopie (esili) e diapositive in Power Point… Limitiamoci a constatare che il germe della superficialità, spesso spacciata per novità o dinamismo, che caratterizza la nostra epoca, da tempo insidia anche gli spazi deputati alla costruzione metodica, rigorosa, mai banale della conoscenza. E la infiltra con tanta più facilità proprio quando l’Università stessa inizia a percepirsi come azienda che, va da sé, parla ai propri "azionisti" numeri alla mano.
Ogni Università, tanto più oggi, nel momento in cui intende consolidare la propria struttura, si confronta forse, più o meno consapevolmente, con una scelta: assecondare questa cultura prêt-à-porter, di fatto utilitaristica, pur di far contento ogni "cliente", oppure sedurre i propri studenti con il rigore del proprio modello e il valore del titolo rilasciato. Di questo vorremmo che si parlasse, anche con i rettori attuali e futuri.