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E se la cancel culture fosse un sintomo di qualcosa d’altro?

Il dibattito pubblico diventa occasione per mettersi in mostra e, al posto di argomenti, si fa spazio a indignazioni ed esagerazioni

(Keystone)
17 dicembre 2021
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E se il problema, nelle estenuanti discussioni sulla cancel culture, non fosse la cancel culture? Da una parte abbiamo – e ormai è un genere letterario, non fosse che spesso viene spacciato per giornalismo – chi si inventa fantasiosi casi di censura del politicamente corretto sui quali costruire indignati discorsi, come l’università di Oxford che avrebbe cancellato Mozart (quando in realtà si discuteva di aumentare l’offerta didattica sulla musica non occidentale) o la semplice analisi dei pregiudizi contenuti in un qualche classico che diventa un “vogliono mettere al bando Shakespeare!”. Dall’altra c’è chi ricorre con fin troppa facilità alle armi del boicottaggio e dell’emarginazione verso chi la pensa diversamente, pur non trattandosi di idee che negano quei basilari requisiti su cui è costruito il vivere civile.

Contestualizzare questi fenomeni, come ci aiuta a fare lo storico Mario Del Pero, è utile, ma occorre anche chiedersi se questa ennesima contrapposizione non sia la manifestazione di un problema più profondo, un problema che non riguarda il giudizio su figure storiche o tradizioni, ma la possibilità di discutere in maniera costruttiva di cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Una discussione pubblica di cui ogni società ha bisogno ma che sempre più spesso viene utilizzata non per dare un contributo, se non alla soluzione almeno alla comprensione di un problema – come potrebbe essere il ruolo pubblico che vogliamo dare ad alcuni personaggi del passato –, ma per distinguersi, per essere riconosciuti come i più puri e intransigenti sostenitori di una causa, ammirati da chi la pensa come noi e temuti dagli altri. Un prestigio che certo si può cercare di ottenere con argomenti convincenti, valutando obiettivamente i pro e i contro dei vari punti di vista (e in questo caso potremmo anche tollerare un eccesso di protagonismo che comunque si accompagna a buoni argomenti). Purtroppo è più semplice farsi un nome puntando sull’esagerazione e sull’indignazione, strumenti molto più potenti come spiegano, nel loro libro ‘Grandstanding: the Use and Abuse of Moral Talk’, Justin Tosi e Brandon Warmke. Di fronte a una certa proposta – rivedere un curriculum universitario, ricordare aspetti controversi di una figura storica, riconoscere il valore culturale di una qualche tradizione, fate voi – non basta dire che è sbagliata o che presenta dei problemi che andrebbero affrontati. Bisogna denunciarla come un tentativo di distruggere i valori su cui si regge il vivere civile, prefigurando un futuro catastrofico simile ma opposto a quello tratteggiato dagli iniziali sostenitori di quella proposta, qualora non venisse accolta. Trasformando ogni confronto in uno scontro e dando l’idea che ogni discussione morale o politica sia, in fondo, un esercizio sterile nel quale è meglio non cimentarsi.

Una bella metafora paragona gli argomenti ai lampioni: c’è chi li usa per fare luce e vedere meglio e chi invece, più o meno come un ubriaco, vi si attacca barcollando per non cadere. C’è anche chi usa la luce dei lampioni per mettersi in mostra e anche questo è un problema, perché trasforma la discussione pubblica in una caotica arena dalla quale non esce nulla di buono.

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