Ispirato al romanzo di Philip K. Dick, da cui ‘Blade Runner’, è il nuovo album della storica band italiana, presentato al Museo della Scienza di Milano
Cosa mai ci farà la Premiata Forneria Marconi, più brevemente detta PFM, al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo Da Vinci di Milano? Ha a che fare col fatto che il disco è invenzione? In parte. La scienza è la sede in cui il nuovo album viene presentato, e la fantascienza l’ispirazione che ha portato qui Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, anime storiche di una formazione che nel 2022 festeggia cinquant’anni di musica ma prima sforna ‘Ho sognato pecore elettriche/I Dreamed Of Electric Sheep’, da domani in italiano e inglese, con titolo dichiaratamente e liberamente tratto da ‘Do Androids Dream of Electric Sheep?’ di Philip K. Dick, in italiano ‘Il cacciatore di androidi’, per tutti ‘Blade Runner’. Il Museo Nazionale della Scienza c’entra anche perché al suo interno è stato registrato il videoclip di ‘AtmoSpace’, diretto da Orazio Truglio, in uscita sempre venerdì. «Sognare le pecore elettriche non ha a che fare solo con l’aver mangiato pesante», spiega Di Cioccio, «ma soprattutto col mondo intorno a noi che cambia e le macchine che ci regolano la vita», tema di un concept da 9 tracce più bonus track (imprescindibile).
«Siamo patiti di fantascienza, di Dick e di Asimov – continua Di Cioccio – che ci aiutano a raccontare di un futuro che così si sta acclarando. A parte la musica di Vangelis, di ‘Blade Runner’ ci colpì la scena in cui il poliziotto, per capire se davanti a sé abbia o meno un androide, gli chiede di parlargli di sua madre e l’androide non ha nulla da raccontargli perché una madre non ce l’ha. Questo ha acceso in noi un campanello d’allarme sui rischi della perdita del sogno, dell’immaginazione, che danno il la per fare le nostre cose». Detto con Djivas: «Temiamo il giorno in cui si chiederà a qualcuno “Parlarmi di tua madre” e quel qualcuno indicherà il proprio smartphone».
Un museo è anche il posto giusto per il flauto di Ian Anderson (Jethro Tull) e la chitarra di Steve Hackett (Genesis), che suonano in ‘Il respiro del tempo’/‘Kindred Souls’. Djivas: «La conoscenza con Ian risale alla Prog Exhibition di Roma, quando suonammo il suo ‘Bourée’ alla maniera della PFM e lui prestò il suo flauto magico alla nostra ‘Carrozza di Hans’. Ian e Steve sono artisti coi quali abbiamo fatto la Cruise To The Edge (la crociera del prog capitanata dagli Yes, ndr). ‘Kindred Souls’ è una marcia per la Terra che include musiche di ogni provenienza, le cornamuse, la chitarra rovesciata che interpreta lo spirito indiano, il jazz rock. Era il pezzo perfetto per chiamare le nostre anime affini inglesi, che si sono proposti con l’umiltà che hanno solo i grandi». Di Cioccio (voce, batteria) e Djivas (basso) sono in copertina, mezza faccia a testa per comporne un’unica; con loro, Lucio Fabbri (violino, tastiere, cori), Alessandro Scaglione (tastiere, cori), Marco Sfogli (chitarra, cori) e Alberto Bravin (tastiere, chitarra, seconda voce). Tra gli ospiti, il cofondatore Flavio Premoli (tastiere) e Luca Zabbini, leader dei Barock Project. Ancora Djivas: «Abbiamo fatto quello che facciamo sempre, suonare quel che ci va e al meglio. Gli incontri ci hanno aperto cuori e orecchie a qualsiasi influenza. Nel primo brano attraversiamo 200 anni di musica in 3 minuti e mezzo, in uno strumentale che parte Prokofiev e diventa Stravinskij, poi arriva il nostro tipico groove basso-batteria e il prog. Lo facciamo avendo ben chiari i requisiti della musica, l’armonia, non solo quella di Schönberg ma anche Mozart che a 7 anni diceva “metto insieme note che si vogliono bene”».
L’ascolto, per noi. Gli ottoni prima di tutto, sinfonicamente rock nel suddetto ‘Mondi paralleli’, che è un sommario d’inizio libro; nel chiedersi, in ‘Umani alieni’, se siamo l’una o l’altra cosa, la risposta è “Extrattereni”; il respiro armonico di ‘Ombre amiche’ è un invito a risolvere la solitudine solo “se ci parliamo, se ci ascoltiamo”; ‘La grande corsa’ è frenetica come frenetica è la città; ‘AtmoSpace’, singolo dalla struttura anti-singolo (meglio così) porta a ‘Pecore elettriche’, il più singolo di tutti; il bel Toto-shuffle (nell’accezione porcariana, non di scommessa) apre ‘Mr. Non lo So’, con solo del Lucio Fabbri violinista. E poi l’Irish che si fonde con l’Oriente ne ‘Il respiro del tempo’: entra la batteria e con essa il flauto di Anderson e poi la chitarra di Hackett, in una lenta rivendicazione di appartenenza (“Siamo noi la Terra”) che è la ragion d’essere del disco. Chiudono ‘Transumanza’ e ‘Transumanza Jam’ con Premoli, altra ragion d’essere fatta di synth e Hammond. Per Di Cioccio: «È la storia di come oggi va il mondo, dal primo pezzo all’ultimo, che è lo specchio del caos in cui non distingui il battere dal levare, problema quotidiano».
Via il termine ‘prog’ per definire la PFM di oggi, perché «per quel che ci riguarda – dice Djivas – a quella tradizione appartengono solo i primi due album. Il resto è musica, la più bella che siamo stati in grado di fare. Il prog di oggi dovrebbe essere la libertà di essere in grado di suonare qualsiasi cosa piaccia». Libertà, presa nel suo insieme, in pericolo come da visioni del distopico 2019 raccontato da Dick: «Androide – ancora Djivas – è chi cerca d’influenzare i ragazzi in Rete. La parola ‘influencer’ andrebbe radiata. I teenager, da quando è mondo, vogliono fare alla loro maniera. Sono loro che hanno inventato l’informatica. Ma ci sono molti altri androidi in giro». Di Cioccio, per finire più ottimistici: «I ragazzi sono linfa vitale, è il loro entusiasmo cui dobbiamo tendere. Di tecnologia ne abbiamo a sufficienza, e se ogni tanto non la spegni e ritrovi quel silenzio nel quale puoi chiederti come stai, le pecore elettriche ci verranno in sogno».
L’album, in italiano e in inglese (su etichetta Inside Out Music)