Il Ppd, con una iniziativa parlamentare, sembra aver trovato l’uovo di Colombo. Fiscalmente sa di comoda contorsione, eticamente di fuga per le frasche
La “sostenibilità” va di moda: comportarsi in modo tale da tener conto di un uso appropriato delle risorse naturali, evitare prodotti ed emissioni inquinanti. Tanto da farne un etichetta di buon’azione o di buon investimento, propizia per ottenere maggiori vendite, rendite climaticamente innocenti, decorosa responsabilità politica. Orecchiando l’inglese o il francese, si parla anche di “durabilità” (o sviluppo durevole) che dovrebbe significare: rispondere ai bisogni presenti senza compromettere quelli futuri. Tanto che alcuni, beffardamente, l’hanno sostituita con l’espressione: fin che dura, continuiamo così.
“Transizione” sembra ora il nuovo termine, ambivalente e più concreto. Ambivalente perché da un lato ammette che così non si può continuare e d’altro lato che qualcosa bisogna fare o cambiare. Pratico perché si concentra “sulla progressiva transizione energetica con l’obiettivo di abbandonare il prima possibile le energie fossili”, principale causa di non sostenibilità o non durabilità. È dunque su questa transizione che va puntata l’attenzione, per escogitarne i modi, trovare le risorse per farvi fronte. Si è cercato di proporre qualcosa con la legge federale sul CO2 che però è stata affossata, soprattutto in Ticino.
Il Ppd, con una iniziativa parlamentare, sembra aver ora trovato l’uovo di Colombo, sommando tutto, e traendone l’espressione: “Risorse per la transizione, senza tasse.”
Gli economisti chiamano “esternalità” i costi generati dall’attività economica, dall’inquinamento, dal traffico, dalle conseguenze di un uso scriteriato del territorio, dalla depurazione delle acque inquinate anche dai pesticidi, dalle conseguenze sulla salute degli uomini, dallo stesso deprezzamento degli immobili. Quando si tratta di rendersene conto, secondo i buoni propositi proclamati di sostenibilità o durabilità o transizione, entrano però in gioco due logiche perverse. Per l’una è sempre l’altro (persino l’immigrato) che si comporta male e inquina e deve pagare o va punito. Poiché ognuno ha un suo altro e tutti sono l’altro di qualcuno, si rischia l’immobilità. Che poi diventa: il popolo ha deciso. Per l’altra, conseguente, è che tutto è giusto e buono se a porre rimedio e a pagare sia lo Stato. Purché non pretenda ancora tasse casuali, legate cioè a una causa definita (l’inquinamento da traffico, ad esempio). Si chiede e si pretende tuttavia che su cause definite (sostituzione impianti di riscaldamento, ad esempio) intervenga sussidiando e spendendo. Provvederanno le risorse statali per la transizione.
O è un incommensurabile ossimoro (meno risorse ma più risorse) o la dantesca “contradizion che nol consente” oppure è quel classico “innalzarsi”, ritenuto il miglior mezzo politico che si conosca per uscire d’un tratto da contrasti fatali. Per dirla più semplice: fiscalmente sa di comoda contorsione, eticamente di fuga per le frasche. Oppure è solo un aspetto di quella che viene definita l’economia della gratuità, che tutti pretendono (cercare di ottenere senza pagare o retribuire) o della vecchia storia del passeggero clandestino.