Cos’è successo davvero? Perché? E adesso cosa capiterà? Lo chiediamo a Francesco Costa, vicedirettore del ‘Post’
Lo si è già ripetuto fino allo sfinimento: il 6 gennaio 2021 è stato un giorno nero, che difficilmente la politica e la storia Usa dimenticheranno tanto in fretta. La giornata nella quale i Repubblicani del presidente Donald Trump hanno perso in Georgia anche l’ultimo avamposto di potere che gli rimaneva – il Senato – si è conclusa con centinaia di manigoldi sotto la cupola del Congresso, tra scontri e violenze. Eventi che richiederanno anni per essere sdipanati come si deve, ma sui quali è importante riflettere subito.
Lo facciamo con Francesco Costa, vicedirettore del ‘Post’, autore di ‘Questa è l’America’ e del nuovissimo ‘Una storia americana. Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire’, in libreria dal 19 gennaio.
Su una scala da 1 a 10, quanto ritiene gravi gli episodi di mercoledì per la democrazia americana?
Facciamo 9. Naturalmente potevano accadere cose peggiori, ma non possiamo prendere una guerra civile come pietra di paragone. A essere grave è il fatto che l’invasione violenta del legislativo sia avvenuta in una delle democrazie più grandi e antiche del mondo, uno dei primi Paesi che ha iniziato a trasferire il potere in modo pacifico quando altrove era impensabile. Ora il passaggio viene colpito là dove avviene, da una folla fomentata direttamente dal presidente uscente. Difficile immaginare una crisi istituzionale più profonda.
C’è chi dice che certi fenomeni, più che a Trump, siano dovuti agli effetti della disperazione economica esacerbata dalla pandemia.
Naturalmente sul lungo periodo ci sono molti fattori che entrano in gioco. Non si deve però dimenticare che chi mercoledì ha attaccato il Congresso non costituiva uno spaccato fedele di quell’America, ma un gruppo minoritario di estremisti sobillati da Trump e da una parte significativa del partito repubblicano.
Chi sono questi estremisti?
Intanto va ricordato che l’America ha una lunga storia di milizie estremiste. Scaturiscono dal tessuto stesso di una società estremamente variegata, sparpagliata su un territorio molto ampio. Questo aiuta a spiegare l’emergere di sette come Qanon, gente che crede nell’esistenza di una congiura di satanisti, cannibali e pedofili coordinata dai Democratici. Cose che viste da qui magari ci fanno ridere e che esistevano già, ma che hanno trovato in Trump il loro rappresentante nelle istituzioni e, come abbiamo visto ieri, il loro detonatore.
Si è trattato di un attacco spontaneo o pianificato?
Bastava dare una scorsa ai social media nei giorni scorsi per capire che c’era un certo grado di pianificazione. D’altronde, un gesto simbolico di sfida al Congresso ritenuto corrotto è da anni nell’immaginario di certe frange. Non credo si possa attribuire tale pianificazione a Trump, che però sperava di avvantaggiarsene: già nelle settimane scorse alcuni suoi collaboratori avevano evocato scenari come la legge marziale per riaffermarne la forza.
Ma allora perché la polizia si è fatta prendere alla sprovvista? Di solito in America si finisce col naso sul marciapiede per molto meno.
Di questo penso che si discuterà per mesi, ed è ancora presto per trarre conclusioni. Ma si possono fare delle ipotesi. C’è chi ritiene che la polizia non volesse intervenire per evitare morti e feriti; però è anche vero che un’operazione che costringe i parlamentari a scappare e barricarsi negli uffici non si può certo dire riuscita. C’è anche chi fa notare lo scarso equipaggiamento e il numero esiguo di agenti, un problema aggravato dalla particolarità di Washington: non essendoci un governatore, anche la mobilitazione della Guardia nazionale a protezione delle istituzioni diventa laboriosa, tanto che mercoledì è intervenuta prima quella della Virginia. Peraltro Trump stesso si è opposto al suo dispiegamento, voluto invece dal vicepresidente: quindi non si può escludere anche una responsabilità di tipo politico. Infine, magari a livello di ranghi più bassi, va ricordato che la polizia ama molto Trump, e forse non tutti gli agenti erano così ostili ai motivi della protesta.
E se a manifestare fosse stato ‘Black Lives Matter’?
Per rispondere basta guardare cosa successe quando marciarono a Washington quest’estate: poliziotti in tenuta antisommossa e Guardia nazionale sui gradini di Capitol Hill, cariche sui manifestanti quando Trump si presentò provocatoriamente davanti alla Casa Bianca con una Bibbia in mano. Nella capitale e altrove – Portland, New York, Minneapolis – abbiamo visto che la mano delle forze dell’ordine è stata molto più pesante. Non è una novità che gli afroamericani subiscano maggiore violenza dalle autorità.
Finora il partito repubblicano ha cercato di cavalcare l’onda della popolarità di Trump. E adesso?
Sarà difficile anche per loro elaborare questo trauma, arrivato al culmine della giornata nella quale hanno perso ogni potere. Molti di loro, eredi di altre esperienze radicali come il Tea Party, hanno trovato in Trump un alleato; ed è pur vero che il sistema elettorale americano tende a incoraggiare un certo estremismo. D’altro canto mai come ora il partito dovrà fare un bilancio di questi anni, che evidentemente non sarà positivo. Se poi sceglierà di voltare le spalle a questi trascorsi dipenderà anche da variabili esterne, come la situazione sanitaria ed economica. In ogni caso, direi che è arrivato il momento della verità.
Cosa capiterà a Trump? Possiamo aspettarci che sia destituito anzitempo per ‘incapacità’ dal vicepresidente Mike Pence, impugnando il 25esimo emendamento, o sottoposto a impeachment? Subirà conseguenze legali?
Essendo tutto inedito è difficile fare previsioni. A pochi giorni dal passaggio delle consegne a Biden, credo che la prospettiva più realistica sia la creazione di un cordone sanitario più o meno robusto attorno a Trump, peraltro già bandito dai social network. Le altre ipotesi – dal 25esimo emendamento al fatto di perseguire il presidente per istigazione alla violenza – saranno certamente dibattute con forza dai Democratici; difficile però dire con quali prospettive. La decisione finale spetterà verosimilmente al Dipartimento della giustizia di Biden.
Il New York Times si chiedeva ieri se quanto accaduto segnerà ‘l’inizio della discesa in un’epoca ancora più buia’ oppure ‘la fine di tale epoca’.
È una previsione complessa. Volendo sposare il proverbiale ottimismo americano, mi auguro che la metabolizzazione di questi episodi coincida con la progressiva uscita dalla pandemia e quindi anche dalla crisi economica: in questo caso potrebbe crearsi un clima più disteso, favorevole a una ripartenza all’insegna del dialogo, dopo almeno vent’anni di logoramento della democrazia e della classe dirigente politica americana.