I disordini di ieri sono il botto finale di un incosciente che non accetta di andarsene senza colpi bassi. Per fortuna in Georgia va molto meglio
Alla fine doveva succedere. Era troppo sperare che l’ostinazione di Donald Trump nel negare la sconfitta potesse limitarsi ai toni del patetico, fino all’ora di prenderlo sottobraccio sussurrandogli “dai, adesso basta, usciamo”. Il Commander-in-chief cercava il botto finale, e ieri lo ha avuto, con una Washington scossa dai disordini, tra morti, feriti e occupazione del Congresso. Un risultato fomentato pochi minuti prima dallo stesso presidente uscente, con un comizio nel quale ha ribadito con sfacciata incoscienza “non ci arrenderemo mai”, “fermate il furto”.
Siamo agli ultimi atti, brutali, di un attacco frontale a tutte le regole della democrazia americana. La dimostrazione del fatto che il primo teppista è quello barricato nello Studio Ovale. La conseguenza di mesi di balle e fiele, già coronati dalla surreale telefonata con la quale chiedeva alle autorità della Georgia di truccare il voto di novembre. Purtroppo una parte d’America molto grande continua a dargli retta (d’altronde, perfino dalle nostre parti si vedono politici che sui social lo difendono e rimestano patetiche teorie del complotto). Il rischio, oltre a una violenza che si spera temporanea, è che l’ombra di Trump continui a oscurare le menti del partito repubblicano, a dettarne la linea politica. Come ha ricordato ieri il sempre lucido storico Mario Del Pero, “l’ipoteca di Trump sui repubblicani è a tutti gli effetti un’ipoteca sulla democrazia statunitense”.
Per fortuna, in Georgia il trucco non ha funzionato. Anzi. Trump ha spaccato l’elettorato con le sue intimidazioni, alienandosi probabilmente molti elettori che al primo turno avevano espresso un voto disgiunto: Biden per la Casa Bianca, i Repubblicani al Senato. Con le sue dichiarazioni ha messo in imbarazzo perfino due fedelissimi galoppini, pronti peraltro a combattere senza regole (hanno accusato gli avversari di essere estremisti di sinistra e perfino molestatori di bambini). Un’anteprima di quella che potrebbe diventare un’aspra lotta interna al partito fra trumpiani e non.
Per contro, quello Democratico è un successo storico, con la conquista di entrambi i seggi e il Senato che passa in mano democratica, seppure solo grazie alla vicepresidente Kamala Harris che potrà fare da ago della bilancia. Spicca in particolare la vittoria di Raphael Warnock, primo senatore democratico afroamericano eletto nella Confederacy, incarnazione di quell’avanguardia politica che spesso si è formata in parrocchie come la sua: la Ebenezer Baptist Church di Atlanta, la stessa di Martin Luther King.
Ironia della sorte. Mentre Washington si riempiva della peggiore ultradestra bianca, dal vecchio Sud arrivava il segno d’un cambiamento in senso progressista. Di una società più variegata e tollerante, proprio là dove fino a qualche decennio fa i Democratici – o meglio, i Dixiecrats – erano ancor più razzisti e segregazionisti dei loro rivali. Viene da sperare che sia il primo di molti cambiamenti a venire.
Ora Joe Biden potrebbe riuscire a governare con maggiore agio, ma non sarà comunque facile. Al di là della tribalizzazione crescente della politica politicante, i fatti di ieri dimostrano che spaccature anche peggiori segnano l’America al di fuori della Beltway di Washington: crepe sociali e identitarie per le quali non basterà lo stucco di una risicata maggioranza al Senato.