Una conversazione col vicedirettore del Post sul suo libro 'Questa è l'America', e sul perché gli Usa in questo periodo sono un po' meno speciali
Spiegare l'America agli europei è sempre difficile: c'è sempre questa mezza familiarità di mezzo – venuta dai libri, dai film, dai viaggi – che ci illude di conoscerla già, anche quando non è vero. Poi ci sono le molte differenze interne, e anche se lo sappiamo – chissà quante volte avremo sentito la frasetta sul "Paese dalle mille contraddizioni" – tendiamo a dimenticarne la reale portata e le ragioni più profonde. Solitamente i giornalisti che provano a spiegarcele ricadono nei cliché, finiscono per fare la lezioncina agli americani più che ai lettori, come se agli uni e agli altri importasse qualcosa. Un’eccezione è Francesco Costa, vicedirettore de ilpost.it, uno che l’America l’ha girata quasi tutta, mangiando burro fritto in Iowa e parlando con gli afroamericani di Bakersfield, California. Ne è uscito un gran bel saggio, ‘Questa è l’America’, pubblicato da Mondadori.
Costa, il libro si apre con la citazione di un presidente americano ingiustamente sottovalutato per colpa del Vietnam, Lyndon Johnson: “Questa è la prima nazione nella storia del mondo che è stata fondata con uno scopo”. Come mai questa scelta?
Johnson firmò la legge per i diritti civili, introdusse programmi come Medicare e Medicaid che oggi coprono decine di milioni di persone, poveri e anziani. Ma la frase non l’ho scelta solo per omaggiarlo. Mi pare che racchiuda una cosa che gli americani si raccontano spesso: il fatto di essere una nazione speciale. Effettivamente lo sono, ad esempio per i motivi che ricordava un altro presidente, Ronald Reagan, nell’ultimo discorso prima di lasciare la Casa Bianca: “Un uomo mi ha scritto: ‘Puoi andare a vivere in Francia, ma non puoi diventare francese. Puoi andare a vivere in Germania, in Turchia o in Giappone, ma non puoi diventare tedesco, turco o giapponese. Invece chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano’”. Ecco uno dei tanti motivi per i quali l’America è davvero un posto speciale.
Adesso, però, c’è un presidente che ha preso in considerazione l’ipotesi di gambizzare i migranti, di scavare un fossato sul confine e riempirlo d'alligatori. E pare che non scherzasse.
È uno dei risultati di quello che negli ultimi dieci o quindici anni è stato letto come il declino americano. A mio parere non si tratta di un declino, in realtà: i paesi in declino hanno caratteristiche economiche e demografiche che l’America, ancora giovane e dinamica, non ha. Però di certo è una trasformazione: gli Stati Uniti stanno diventando diversi da quella nazione che descrivevano Johnson e Reagan, ma anche i padri fondatori nella Costituzione. Stanno diventando meno speciali.
Cos’è cambiato?
Intanto c’è la radicalizzazione che ha investito la politica, in particolare i Repubblicani. La classe media, fulcro del sistema, ora è strattonata dagli estremi. Moltissimi dei problemi dell’America – dalla condizione degli immigrati alla questione sanitaria – non sono stati affrontati proprio perché le divisioni hanno prevalso sulla volontà di trovare soluzioni condivise. A sua volta, proprio l’aggravarsi dei problemi ha ulteriormente esacerbato le divisioni, in un circolo vizioso.
Ora peschiamo un paio di nomi menzionati in capitoli diversi del libro, a lei trovare eventuali punti di contatto. Cominciamo: Elbridge Gerry e Newt Gingrich.
Entrambi, in modi molto diversi, sono responsabili della radicalizzazione. Padre fondatore, vicepresidente, Gerry si inventò uno strumento ancora attualissimo: il ridisegno dei collegi per la Camera dei deputati per favorire la vittoria del proprio partito, una pratica nota appunto come gerrymandering. Entrambi i partiti ne hanno approfittato quando controllavano le commissioni elettorali, ma mai come i Repubblicani dal 2010. Il risultato è stato non solo il controllo repubblicano della Camera per lungo tempo, ma anche il fatto che le elezioni passano in secondo piano rispetto alle primarie: se il voto non è contendibile, la vera sfida è riuscire a essere candidato. E siccome per avere l’appoggio del partito bisogna parlare a un pubblico ben più schierato rispetto all’elettorato generale, hanno iniziato a prevalere profili più estremisti. Newt Gingrich (presidente repubblicano della Camera ai tempi di Clinton, ndr) ne è l’esempio e il risultato: è stato il primo ad abbattere i ponti, ad affermare l’idea per la quale il consenso non passa dai compromessi, ma dal ‘far saltare’ Washington, incassando un dividendo elettorale dal fallimento della politica, dunque dal malcontento delle persone.
Saige Earley è una delle tantissime vittime dell’abuso di antidolorifici, oppiacei prescritti in maniera smodata che poi, creando dipendenza, hanno solcato come una piaga tutti gli Stati Uniti. Cliven Bundy è un ranchero del Nevada infilatosi in un conflitto lunghissimo con lo stato federale per i diritti di pascolo, fino a sfidare con le armi l’assedio delle autorità. Storie diversissime, ma un punto di contatto c’è: il ruolo dello Stato nelle vite delle persone, il modo in cui viene percepito dagli individui. Nella storia di Earley vediamo l’assenza dello Stato, che ha permesso alle case farmaceutiche di invadere l’America con milioni di pillole, vendendole anche a chi non ne aveva bisogno, creando milioni di tossicodipendenti. Ma questo arretramento dello Stato si deve a ragioni culturali profonde, esemplificate dalla storia di Bundy: pur di non pagare a Washington un dollaro per ogni mucca che pascola su prati pubblici, ha finito per scontrarsi coi militari e la polizia. Un altro atteggiamento ben descritto da Reagan: “Il governo non è la soluzione del problema, il governo è il problema”.
Una realtà che per ora premia i Repubblicani. Ma la demografia sembra giocare contro la ‘Right Nation’, la nazione di destra che si affermò prima con Bush e poi con Trump.
Dal punto di vista etnico, gli Stati Uniti diventano di giorno in giorno meno bianchi. Per come funziona finora la politica americana – anche se l’etnia non è un destino e non ci dice univocamente chi voterai – questo potrebbe favorire i Democratici. I Repubblicani hanno deciso chiaramente di rappresentare quasi esclusivamente i bianchi, e questo li penalizza. Infatti il partito si impegna molto a limitare la partecipazione al voto delle persone appartenenti a minoranze. Non a caso ora stanno cercando di ostacolare il voto per corrispondenza proposto come soluzione data l’emergenza sanitaria.
Un capitolo del libro è dedicato alle armi. Quello tra americani e fucili appare un rapporto morboso. Ma forse va anche contestualizzato: ci sono stati grandi quanto l'Italia e quasi spopolati – 40 stati messi insieme non fanno la popolazione di New York –, posti nei quali le istituzioni sono ancora vissute come remote.
Per capire la questione dobbiamo tenere in conto due aspetti. Il primo è che in una parte importante del territorio americano – quello che una volta chiamavamo Far West – le persone sono arrivate prima dello Stato. Questo rendeva necessario difendersi da soli, e ha reso le armi non solo uno strumento di sopravvivenza, ma anche una forte eredità culturale: come noi ricordiamo la prima volta in cui siamo stati allo stadio con nostro padre, o quando ci ha insegnato ad andare in bicicletta, in America quel tipo di legame è spesso legato al primo sparo, a imparare come si maneggia e pulisce un’arma. Il secondo fattore invece è più recente, risale all’incirca agli anni Settanta: è in quel periodo che ha cominciato ad affermarsi una divisione sempre più netta tra l’identità repubblicana e quella democratica. A quel punto le armi sono diventate un simbolo politico: i repubblicani le comprano anche se non le utilizzano, per dire da che parte stanno. Peraltro, anche se ci sono tantissime armi negli Stati Uniti, in realtà una stragrande maggioranza non ne possiede alcuna: quasi la metà è posseduta dal 3% della popolazione.
Il problema, come ricorda nel libro citando Čechov, e che se in scena c’è un’arma, prima o poi qualcuno la userà.
C’è chi sostiene che le stragi da arma da fuoco non siano dovute al proliferare di armi, ma a qualche aspetto peculiare della cultura e della società americane, come se la propensione alla violenza fosse più marcata lì che altrove. Non è vero: se si guarda al numero di reati commessi, ad esempio le rapine, si vede che il tasso per abitante non è così diverso tra Londra e New York. Il problema è che a New York è molto più probabile che spunti una pistola e ci scappi il morto. Ci sono semplicemente più armi, e prima o poi qualcuno che le utilizza spunta fuori.
Un anziano afroamericano le ha detto: “It’s better to be judged by twelve, than carried by six”. Meglio essere giudicati da dodici – il numero di giurati popolari nei processi americani – che trasportati da sei: nella bara, s’intende.
Questa frase è molto interessante perché può essere letta in due modi. Il signore di Bakersfield me la spiegava come una lezione di vita data al figlio: se la polizia ti ferma, magari in modo arrogante e violento, meglio non fare polemiche. Meglio finire a processo che ammazzati da un agente. Per altri americani, invece, il significato è totalmente opposto: piuttosto che consentire a qualcuno di farti del male, conviene sia tu a sparargli per primo.
Questo libro è uscito poco prima del coronavirus. Col senno di poi, ne cambierebbe qualcosa?
Di sicuro approfondirei ulteriormente il tema del sistema sanitario, il fatto che molte assicurazioni siano legate al contratto di lavoro e quindi ogni crisi economica diventi anche una crisi sanitaria. Non a caso le discussioni su eventuali riforme non sono mai state forti come in questo momento. Eppure resta il fatto che molti americani non tollerano l’idea di assicurazione universale, la associano a uno stato troppo invadente: prevale una forte enfasi sulla responsabilità individuale rispetto al destino collettivo. In altri casi questo può anche essere un vantaggio: il fatto che una nazione giovanissima sia diventata la più grande potenza del mondo dipende anche da una società molto competitiva, che da una parte esclude ferocemente chi resta indietro, ma dall’altra premia enormemente il talento e l’innovazione.
Eppure oggi quella spinta in avanti appare esaurita. Lo slogan di Trump è ‘Make America Great Again’, un motto che guarda nello specchietto retrovisore.
Sì, e la parola chiave qui è ‘again’, di nuovo: Trump coltiva il ritorno a un’America idealizzata, più semplice e senza concorrenza asiatica, dove comandavano i bianchi, dove potevi dire quello che volevi perché non c’era il politically correct. Parla a chi vede il vicino con la pelle più scura come una minaccia.
L’ultimo capitolo di ‘Questa è l’America’ s’intitola ‘Il bivio’. Nel senso che potremmo vedere una sconfitta di Trump?
Il bivio esiste a prescindere da come andranno queste elezioni. L’America si sta trasformando in un paese un po’ meno speciale e l’elezione di Trump è una conseguenza, non una causa di questa trasformazione. Naturalmente però la sua presenza accelera questi processi. Il candidato democratico Joe Biden è pieno di difetti, ma la sua elezione sarebbe il segnale di vita di un paese progressista, più vicino a quegli ideali di diversità che ne attraversano la storia, dai padri fondatori a Reagan.