L'autoproclamazione della vittoria alla Casa Bianca merita di essere rivista e rivista, per parecchi motivi e non solo in America
Merita di essere osservato con molta attenzione, il discorso col quale ieri mattina Donald Trump si autoproclamava vincitore delle Presidenziali americane. C’è tutto il riassunto estetico e gestuale di questa presidenza: la folla di lacché vestiti da balera con gli smartphone puntati su di lui, ammassati e senza mascherine; le mossette, l’increspar di labbra, quello sguardo ‘mi faccia Marlon Brando’ che farebbe anche ridere, se non parlassimo di chi ha il dito sul bottone nucleare. Ma soprattutto c’è l’atto estremo di quello che lo storico Mario Del Pero, con tagliente lucidità, ha definito “un mix di analfabetismo istituzionale ed eversione costituzionale”.
In una decina di minuti scarsi, Trump è riuscito ad alludere a inesistenti brogli degli avversari e screditare così l’intera elezione; a invocare un intervento della Corte suprema del quale non si vedono né le ragioni, né le basi legali; e naturalmente ad appuntarsi sul petto la vittoria prima di conoscere l’esito reale, al punto da far dire a un analista della Cnn che “non siamo in Bielorussia”.
Ormai ci si stupisce di stupirsi, davanti a Trump. Nemmeno lui, però, era mai arrivato a tanto: gettare un tale discredito su quelle istituzioni delle quali è massimo rappresentante da rischiare che qualcuno, abboccando alla storiella dell’elezione ‘rubata’, metta mano a torce e fucili. Già prima delle elezioni si è assistito a tafferugli e blocchi stradali: non è detto che quella miscela di risentimento e razzismo resti ora inerte, tanto più che Trump ha continuato le sue insinuazioni sui soliti social network. Mai, proprio mai s’era visto un presidente in carica ridotto così, al punto che perfino i suoi strenui difensori hanno avuto seri problemi a proteggerlo sulle tivù americane (uno è arrivato a dire che “è stanco”).
Chissà che a guardare certe immagini non si ponga finalmente qualche domanda anche chi dà fiducia ai mini-Trump europei e locali, quelli che giocano sugli stessi odi e le stesse guerre tra poveri – si parva licet –, e del loro più ingombrante padrino difendono in queste ore la lotta contro lo ‘stabilishment’, come ha scritto sui social un dotto politico ticinese e nazionale.
Ma Trump non è solo un uomo e un presidente: è anche il sintomo di divisioni sociali che non se ne andranno neanche quando lascerà la Casa Bianca. Lui getta la sigaretta, certo, ma la polveriera di diseguaglianze sociali, discriminazioni razziali ed emergenze sanitarie irrisolte (non solo il coronavirus) ha una lunga storia che non sparirà facilmente. C’è un sistema politico ed elettorale che non rappresenta più gli equilibri e le differenze del paese, come dimostra il fatto che si finisca sempre per deciderne il futuro in tre o quattro Stati. C’è naturalmente quella sofferenza che Trump strumentalizza ma non inventa, in primis quella della vecchia America le cui tute blu sono rimaste nell’armadietto del passato. Neanche questa sofferenza è solo americana, come non lo sono le difficoltà delle minoranze che invece si sono affidate a Joe Biden, anche se la storia e il presente degli Usa non sono certo identici a quelli europei. Forse è proprio questa combinazione di somiglianza e distanza che ci fa osservare con tanta attenzione la loro politica: sappiamo che sebbene attraverso un cannocchiale, a volte perfino rovesciato, riusciamo a scorgere qualcosa di noi.