Il direttore Adriano Agustoni spiega come compagni e docenti abbiano contribuito in modo decisivo a sventare l’attacco alla Scuola di commercio
«I fatti ripercorsi durante il processo hanno riaperto nella scuola - anche nella scuola - una ferita. Inevitabilmente. Oltrettutto sono emersi dettagli che non conoscevo. Spero che questo giovane, questo nostro ex allievo, riesca a curarsi e a riappropriarsi di un’esistenza per così dire normale, a rifarsi una vita reinserendosi nella società. Cosa che dipenderà non solo da lui, ma soprattutto da lui». Parla Adriano Agustoni, il direttore della Commercio, l’istituto scolastico cantonale, con sede a Bellinzona, della sventata strage. Per la quale la mattina del 10 maggio 2018, un giovedì, era stato arrestato un allievo di quella scuola: a casa aveva una sorta di arsenale. L’ex studente, oggi 21enne, è stato condannato venerdì dalla Corte delle Assise criminali, riunita a Lugano e presieduta dal giudice Mauro Ermani, a sette anni e mezzo. Come aveva chiesto la pubblica accusa, rappresentata dal procuratore capo Arturo Garzoni. Una pena ’sospesa’. Difeso dall’avvocato Luigi Mattei, il giovane verrà infatti sottoposto a trattamento terapeutico. «Credo che la sentenza riconosca pure l’importante ruolo avuto dalla scuola nel bloccare per tempo il ragazzo, e questo al di là del grande lavoro svolto dalle forze dell’ordine», riprende Agustoni. Che ricorda ancora molto bene ciò che avvenne il giorno precedente a quello del fermo, scattato grazie “a segnalazioni mirate” e "all’analisi operativa effettuata dal Gruppo gestione persone minacciose o pericolose della Polizia cantonale”, come scrissero gli inquirenti nel comunicato diramato alle redazioni intorno alle 18 di giovedì 10.
Direttore Agustoni, torniamo allora al 9 maggio 2018, un mercoledì.
Il tutto si svolse in una manciata di ore: dalle 8 alle 15. Quella mattina una nostra allieva riferì a una sua docente del timore che il ragazzo, allora 19enne, potesse farsi del male dopo aver chattato con lui. Una preoccupazione che non la abbandonò per tutta la notte e che volle condividere con un insegnante, anche per sapere se alcune cose di cui era venuta a conoscenza fossero da prendere sul serio o meno. Dopo aver ascoltato la studentessa, la docente non perse tempo: si precipitò in Direzione. Quella mattina non c’ero, essendo in Dipartimento (il Decs,ndr) per un incontro. Ne parlò con uno dei miei vice, che a sua volta prese immediatamente contatto con il sottoscritto. Informai quindi i miei superiori al Dipartimento educazione cultura e sport: oltre al consigliere di Stato, il responsabile della Sezione dell’insegnamento medio superiore e il direttore della Divisione della scuola. Dopodiché come Direzione della Commercio segnalammo quanto appreso alla Polizia cantonale. Una telefonata alle forze dell’ordine che non facemmo proprio a cuor leggero.
In che senso?
Ci domandammo, a più riprese, se non stessimo prendendo lucciole per lanterne. C’era il timore di prendere un abbaglio, traendo frettolosamente delle conclusioni sbagliate, e quindi di rovinare comunque la vita a un allievo la cui condotta all’interno dell’istituto e il cui rendimento scolastico non avevano mai destato sospetti, anzi. Insomma, accettammo di correre il rischio. Un’assunzione di responsabilità che, dopo il fermo del ragazzo e gli sviluppi del procedimento penale su questa sventata strage, si rivelò corretta, provvidenziale.
La rete, i contatti dunque funzionarono.
Si trattava di agire rapidamente. Reagì subito la scuola, reagì subito la polizia. Ma ci aiutò anche la fortuna.
E una studentessa e una docente, che misero subito al corrente di ciò che avevano saputo i vertici dell’istituto.
Indubbiamente. Aggiungo che questo si inserisce in una dinamica abbastanza diffusa nelle medie superiori dove ogni allievo ha più di dieci docenti. Ora certe cose uno studente non le racconterebbe a tutti gli insegnanti, ma solo a due o tre, dei quali si fida e nei quali ripone una fiducia accresciuta. Con questi due o tre docenti l’allievo si confida perché sa di essere ascoltato. Perché questi insegnanti sanno ascoltare e se del caso approfondiscono. In ogni caso da loro arriverà una risposta. Ed è ciò che è capitato quel mercoledì 9 maggio di due anni fa, con una successiva rapida condivisione delle informazioni a tutti i livelli dell’istituzione scolastica cantonale.
A oltre due anni dal fermo del ragazzo, lo choc è stato superato?
Non si è mai del tutto al riparo. Il rischio è sempre latente. Fondamentale è saper cogliere determinati segnali, più facile però a dirsi che a farsi, visto che non tutte le situazioni sono analoghe. E non si può neppure blindare una scuola, come si potrebbe fare con la sede di un parlamento o con uno stadio. Ho visitato un liceo privato in Svizzera francese, dove si entra con apposito tesserino e dove sono state installate altre misure di sicurezza. Ma quel concetto di scuola, e mi esprimo a titolo personale, non mi appartiene. La scuola non deve educare alla paura.
Abbiamo fin qui parlato dei docenti. Quale consiglio si sente di dare ai genitori?
Non può che essere un consiglio di carattere generale. Mai sottovalutare determinati atteggiamenti o repentini cambiamenti di comportamento. A sedici, diciassette anni non si è più bambini sprovveduti: si è consapevoli in quale direzione ci si muove. E talora alcune scelte conducono ad atteggiamenti violenti.
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«È ordinato il trattamento stazionario di tipo integrato psicoterapeutico e farmacologico ex articolo 59 capoverso 2 del Codice penale». È con queste parole che venerdì scorso, al processo, il presidente della Corte Mauro Ermani, leggendo il verdetto di condanna, ha di fatto riconsegnato l’imputato 21enne alla struttura aperta nella quale sta già seguendo un percorso psichiatrico. L’articolo 59 prevede infatti che “se l’autore è affetto da grave turba psichica, il giudice può ordinare un trattamento stazionario qualora l’autore abbia commesso un crimine o un delitto in connessione con questa sua turba e vi sia da attendersi che in tal modo si potrà evitare il rischio che l’autore commetta nuovi reati”. In questo caso, anche alla luce delle perizie psichiatriche, è previsto che il giovane possa continuare a vivere in un foyer e non in strutture psichiatriche maggiormente ‘chiuse’.
Va notato che la durata del trattamento e il ritorno alla libertà del reo dipendono proprio dal successo delle terapie: “Se, dopo cinque anni, i presupposti per la liberazione condizionale non sono ancora adempiuti”, se insomma non si è guariti, “il giudice, su proposta dell’autorità d’esecuzione, può ordinare la protrazione della misura, di volta in volta per un periodo non superiore a cinque anni”. Giudici e periti si sono tuttavia detti ottimisti circa la possibilità di recupero del ragazzo.