Dal 15 al 18 agosto del 1969, nelle campagne di Bethel, il concertone che segnò la storia: instantanee di un weekend di pace, amore, arte e pacifica trasgressione
Nella primavera del 1969 a Woodstock, un po’ come a Stoccolma una quarantina d’anni più tardi, tutti confidano nella presenza di quel simpaticone di Bob Dylan, che da quelle parti, sin dal tempo del suo incidente in moto, ci abitava e registrava dischi. E come lui The Band, Van Morrison e Janis Joplin. Per Michael Lang e Artie Kornfeld, che avevano trovato nei business angels John P. Roberts e Joel Rosenman disponibilità finanziarie illimitate, la presenza del poeta, magari a testimoniare in prima persona che i tempi stavano cambiando, avrebbe garantito la stima iniziale di 50mila spettatori per riempire la loro creatura, la ‘Festa delle arti e della musica di Woodstock’ (una volta incassato il “no” dell’omonimo villaggio e spostata la sede a Bethel, mantenendo il nome).
Dylan, di suonare ai tre giorni di pace e musica non ha la minima intenzione. Ufficialmente perché il figlio non sta bene; non ufficialmente perché gli hippie si sono autoinvitati a casa sua (come accadrà a John Lennon prima di Chapman) e ancor meno ufficialmente perché il singer-songwriter, attratto da richiami beatlesiani, si è già accordato con altro festival, quello dell’Isola di Wight. Perché “Wight is Wight” e “Dylan is Dylan”, canterà Michel Delpech (e poi i Dik Dik). Ma le 400mila persone confluite a Bethel da venerdì 15 a lunedì 18 agosto (ma potrebbero essere state un milione di anime) sono accorse sui prati della fattoria di Max Yasgur anche senza Zimmermann, i Beatles al lavoro su ‘Abbey Road’, gli Stones da poco orfani di Brian Jones e i Doors con Jim Morrison fresco di arresto per aver mostrato i gioielli di famiglia a Miami. A riscaldare i cuori, con un’umidità che ha la consistenza di un budino, ‘basteranno’, in ordine sparso, Crosby Stills Nash & Young, Arlo Guthrie, figlio del padre dei folk singers, Joan Baez (che dal palco rassicurerà sulle sorti del marito David, in cella in quanto obiettore di coscienza) e, traffico permettendo (ci vorranno gli elicotteri a portarle in loco), stelle affermate e nascenti, da sole o con band, come Who, Grateful Dead, Jefferson Airplane, Blood, Sweat & Tears, Ten Years After (visti in Vallemaggia un mese fa), Santana, Joe Cocker e Janis Joplin.
Prima che tutto cominci, però, di venerdì pomeriggio, quando già a migliaia sono accampati lungo i seicento acri di Yasgur e non vi è stato il tempo di erigere recinzioni, Lang prende atto dell’imprevista gratuità di Woodstock. Nelle casse degli organizzatori, dunque, resterà il solo denaro della prevendita. Come accadrà per molti altri ‘concertoni’, il debito di due, forse tre milioni di dollari dell’epoca verrà sanato dall’uscita di un triplo live e dal documentario di Michael Wadleigh, Oscar nel 1971, che fotografa il popolo di Woodstock e insieme il momento storico. “Su quella terra ci siamo riconosciuti l’un l’altro per ciò che eravamo, fratelli e sorelle”, dirà Michael Lang nel suo libro.
La musica ricorderà l’interminabile instant song ‘Freedom’ di Richie Evans (viabilità in tilt, gli artisti tardano, si chiede all’afroamericano di prender tempo), il ‘F.U.C.K.’ di Country Joe McDonald a chi ha deciso di invadere il Vietnam, gli Who alle quattro del mattino, Santana in ‘Soul sacrifice’ e il tarantolato Joe Cocker in ‘With a little help from my friends’, seguita dal diluvio e conseguente bagno di fango, iconico quanto la rendition beatlesiana del suo interprete. Tutto questo, e molto altro, prima di e fino a Jimi Hendrix, che all’alba di lunedì 18 estrae dalla bianca Stratocaster uno straziato inno americano, per un “chi vuole capire, capisca”. Il chitarrista era previsto a mezzanotte del giorno prima; quando sale sul palco, nove ore dopo, molti di quelli che la storia chiamerà all’occorrenza visionari o poveri illusi sono già al lavoro. L’orizzonte pare un campo di battaglia, ma la battaglia avverrà vent’anni dopo, e non sarà colpa dei figli dei fiori.
Quando nella primavera del 1970 uscirà nelle sale il documentario, molti dei musicisti transitati sul palco di Woodstock andranno a cercare la propria esibizione nel montaggio finale. Non trovandola. Fatta eccezione per chi non si è piaciuto e non ha firmato il consenso, totale (John Fogerty) o parziale (Neil Young), chi è rimasto fuori dovrà chieder conto al proprio manager, che non ha trovato l’accordo economico. Nemmeno Joni Mitchell si rivedrà, non avendo mai messo piede a Woodstock. Per lei ha scelto il manager Elliot Roberts, spedendola al Dick Cavett Show, un ‘Lettermann’ per questioni di cachet, o perché la giovane cantautrice era uscita con le ossa rotte dall’Atlantic City Pop Festival, poche settimane prima. Ma Joni ha scritto una canzone, intitolata ‘Woodstock’, che diverrà un simbolo di quel raduno, presentata al californiano Big Sur festival un mese dopo Bethel e consacrata definitivamente sull’Isola di Wight. “Sto andando giù alla fattoria di Yasgur”, canta la (oggi 75enne) Mitchell, tra il biblico (“Siamo carbonio di miliardi di anni e dobbiamo riportare noi stessi al giardino”) e il pacifista (“Sognai i cacciabombardieri e i loro spari nel cielo mutarsi in farfalle sopra la nostra nazione”). Alla scrittura del brano contribuì il racconto di Nash, nuovo compagno dell’epoca. Nel recente ‘Joni 75 A birthday celebration’, invece, è l’amico James Taylor a interpretarla. Come fosse sua.
“Sono dispiaciuto, ma ero preparato”. Così Michael Lang annunciava alla fine del mese scorso il fallimento del Cinquantesimo del suo Woodstock, previsto dal 16 al 18 agosto prossimi. Saltate in pochi mesi le location di Watkins Glen e, in alternativa, quella di Vernon Downs, entrambe nello Stato di New York, venuto meno il supporto finanziario, la commemorazione non si terrà. “Ho sbagliato partner, mi prendo le mie colpe”, dichiarava Lang riferendosi a chi “non conosce i tempi nei quali queste cose devono essere fatte”. Resta in vita la sola celebrazione in programma a Bethel dal 15 al 17 agosto: Arlo Guthrie si esibirà proprio nel campo della fattoria di Yasgur; Santana, Doobie Brothers, John Fogerty (a Woodstock con i Creedence Clearwater Revival) ed Edgar Winter suoneranno al Bethel Woods Pavillion in nome degli “io c’ero”; tra gli “io non c’ero, ma questa volta sì”, Blood Sweat and Tears e Ringo Starr con band.
Pur con altri organizzatori, il raduno del ’69 ha avuto varie commemorazioni. A partire dal Woodstock ’79 al Madison Square Garden di New York; il Woodstock ’89, invece, si svolse spontaneamente ancora nella fattoria di Yasgur. Il Venticinquesimo, accompagnato dallo slogan “2 More Days of Peace and Music" (“Altri 2 giorni di pace e musica”, ma i giorni furono tre), si tenne a Bethel: al Woodstock ’94, aperto e chiuso da Peter Gabriel, un nubifragio riportò i presenti alle condizioni meteo del ’69, dando il la a una battaglia di fango che ebbe come bersagli Green Day e Nine Inch Nails. Più dell’‘Heroes of Woodstock Tour’ del 2009 (un Quarantesimo festeggiato in maniera itinerante dal 31 luglio al 10 ottobre), a far parlare di sé fu Woodstock 1999, allestito in un’ex base aerea a Rome (sempre nello Stato di New York).
Più della musica, nel luglio di quell’anno, poterono gli atti vandalici e due stupri di gruppo, durante il set dei Limp Bizkit e quello dei Korn. Il set dei Limp Bizkit, in particolare, gettò le basi per un incendio: la folla, invitata dal frontman a esprimere tutta la propria “energia positiva”, divelse i pannelli in compensato della struttura, dati alle fiamme durante i set di Red Hot Chili Peppers e Megadeth, dalle centomila candele pacifiste di un gruppo di attivisti, trasformate in micce. Se il popolo di Woodstock ’69 danzò sotto la pioggia, quello del ’99 lo fece in mezzo alle fiamme, “ritratte” dalle parole del leader dei Red Hot (“Santo cielo, sembra ‘Apocalypse Now’”) e dal documentario tv di Marc Scarpa, testimonianza visiva di un disastro che solo per puro caso non assunse ben più ampie proporzioni. Un disastro che include quaranta arresti, 10mila feriti e otto ulteriori aggressioni a sfondo sessuale; un bilancio che il San Francisco Chronicle, trasferendo il Don McLean di ‘American Pie’ alla generazione ’90, definì “the day the music died’ (“il giorno in cui la musica è morta”).
Jeff Beck sciolse apposta il suo ‘Group’; i canadesi Lighhouse dissero che non era un bel palco; per i Byrds sarebbe stato “un festival come un altro”; a Tommy James fu detto: “Ci sarebbe da suonare nel prato di una fattoria di maiali”; il leader dei Jethro Tull non stimava gli hippie e non era un segreto; per il manager Peter Grant, i Led Zeppelin sarebbero stati “soltanto un’altra band in scaletta”. Nemmeno Pete Townshend degli Who, che comunque accettarono l’invito, ha mai amato Woodstock. Anni dopo, il chitarrista ricorderà solo Richie Heavens (“Tutti gli altri erano conigli sotto i riflettori”), stroncando: “Avrebbe potuto essere un inizio invece che una fine. C’era un milione di anime buone con le migliori intenzioni. Cos’è andato storto? Non lo so. Forse nulla. Io, non mi sono divertito”. Colpa, forse, di Abbie Hoffman, attivista che al termine di ‘Pinball Wizard’, dall’opera rock ‘Tommy’, salì sul palco per dire: “Tutto questo è una montagna di m****, mentre John Sinclair (suo omologo, arrestato per aver venduto spinelli a un agente in borghese, ndr) è in prigione”. “Scendi dal mio palco”, grida Townshend, colpendolo con la chitarra (in testa, si dice). E chiosa: “Il prossimo che sale lo uccido”.
Woodstock non è mai andato giù nemmeno a Eddie Kramer, storico produttore e ingegnere del suono sudafricano al quale fu affidata la registrazione della manifestazione. “Fu un incubo”, dichiara alla stampa italiana. “Quando sei l’unico essere umano lucido tra 500mila strafatti le cose si complicano”. Depositario di tutto quanto Jimi Hendrix ha inciso in vita, Kramer ricorda che per restare sveglio fino al quarto giorno (e registrare l’esibizione del chitarrista) dovette ricorrere a iniezioni intramuscolari di vitamina B. “Woodstock non è stato l’inizio di un bel niente”, conclude. “È solo la porta dietro la quale sono rimasti sepolti gli ideali e le utopie degli anni Sessanta”.