L'ecuadoriano ha vinto il titolo olimpico alle pendici del monte Fuji, davanti al belga Van Aert e allo sloveno Pogacar
Stavolta, la montagna ha partorito un dragone. Ai piedi del monte Fuji il primo podio olimpico del ciclismo ha premiato l'ecuadoriano Richard Carapaz, il belga Wout van Aert e lo sloveno Tadej Pogacar. Sarà un caso, ma questi stessi tre atleti sei giorni prima erano stati festeggiati sullo sfondo dell'Arco di Trionfo di Parigi: Pogacar maglia gialla e vincitore del Tour de France, Carapaz terzo classificato e Van Aert trionfatore dell'ultima frazione sui Campi Elisi. La Grande Boucle, insomma, sarà pure una gran faticaccia, ma ti dà una gamba come nessun altra corsa. Ad approfittarne è stato l'ecuadoriano vincitore nel 2019 del Giro d'Italia. È riuscito a sorprendere tutti con un colpo da maestro in una corsa che equivaleva, con i suoi 234 km e quasi 5'000 metri di dislivello, a una tappa di alta montagna di Tour, Giro o Vuelta. Il 28.enne di El Carmelo ha tagliato il traguardo in solitaria, con più di un minuto di vantaggio su un gruppetto regolato allo sprint da Van Aert davanti a Pogacar. Nessuno svizzero è stato in grado di inserirsi nella lotta per la vittoria. Il migliore del quartetto elvetico è stato Marc Hirschi con il 25º posto finale a oltre 6’ dal vincitore.
Ma torniamo a Carapaz, da sabato ufficialmente eroe nazionale ecuadoriano... «È la seconda medaglia d'oro nella storia olimpica del mio paese – ha commentato il centroamericano –. La prima risale a un quarto di secolo fa, ad Atlanta 1996, con il marciatore Jefferson Perez. Anche per questo motivo, si tratta di qualcosa di speciale. La corsa è stata molto dura e ho dovuto giocare bene di tattica, in quanto, non avendo a disposizione una squadra, è stato necessario attendere il momento giusto per muovermi». E il momento giusto è giunto a 25 km dall'arrivo.
In una corsa resa molto dura dal gran caldo, oltre che dalle difficoltà altimetriche, la battaglia è esplosa sul Mikuni Pass, la penultima asperità di giornata, di gran lunga la più impegnativa (6,5 km al 10,4% con punte al 22%). Appena la strada si è alzata in modo importante sotto i pedali dei corridori, Pogacar ha piazzato l'attacco che ha fatto esplodere il gruppo. Dapprima se n'è andato in compagnia dello statunitense McNulty e del canadese Woods, ma poco prima dello scollinamento sono rientrati anche Van Aert, Bettiol, Carapaz, Schachmann e Kwiatkowski (tra gli altri).
A 25 km dall'arrivo di un percorso che pure nei chilometri conclusivi presentava pochissima pianura e un continuo saliscendi, Carapaz è stato l'unico in grado di intuire la pericolosità dell'attacco di McNulty. I due hanno immediatamente trovato un buon accordo che ha portato il vantaggio a superare i 40”, anche perché nel gruppo dei migliori nessuno voleva compiere lo forzo di andare a chiudere che avrebbe servito su un piatto d'argento la vittoria a qualche rivale. A in certo punto, però, Van Aert – probabilmente il più forte di giornata – si è incaricato di fare il ritmo. Con lunghissime trenate (nessuno gli ha dato per davvero il cambio) ha ridotto lo svantaggio a 12”, ma anche per lui le energie sono venute meno e, vistosi sfuggire l'oro, ha iniziato a pensare all'argento. Così, Carapaz e NcNulty sono giunti insieme all'interno del circuito automobilistico del Fuji fino a 6 km dall'arrivo, quando l'ecuadoriano ha piazzato la botta vincente, scattando in faccia a uno statunitense ormai al lumicino delle forze, per andare a conquistare una vittoria che gli ritaglia un posto d'onore nel pantheon degli eroi nazionali dell'Ecuador.
Carapaz è così diventato l'uomo dei vulcani, aggiungendo il monte Fuji del Giappone al Chiles di casa sua (4'723 metri), dove è solito allenarsi lungo una salita di 14 km in sterrato.
La Nazionale svizzera ha raccolto poco. Anzi, si è sbriciolata proprio quando i giochi hanno iniziato a farsi interessanti, vale a dire nella salita del Mikuni Pass. «Faceva un gran caldo, soltanto i più forti sono riusciti a mettersi in evidenza», ha commentato Marc Hirschi, il numero uno della selezione di Swiss Cycling. «In una corsa come questa – ha aggiunto Stefan Küng – non ti puoi nascondere: se non hai le gambe, non vai da nessuna parte».