Prime Olimpiadi per lo spadista di Lugano Scherma, titolare inamovibile di una Svizzera che aspetta una medaglia dal 2004. 'Pressione sì, ossessione no'
Sotto chiave, nel regno di Olimpia. Migliaia di atleti che mordono il freno in attesa di poter infine cominciare a sudare, in quelli che passeranno alla storia come i Giochi più travagliati di sempre. Rinviati una prima volta l’anno scorso dall’arrivo della pandemia e poi rimessi in scena alla bell’e meglio, di fronte a una silente platea di seggiolini vuoti, in una Tokyo sempre più inquieta per i contagi da Covid che non cessano di crescere. «Qui, però, tutta questa paura non arriva» dice Michele Niggeler, ventinovenne portacolori di Lugano Scherma, ma soprattutto titolare inamovibile di una Nazionale di spada che sogna una medaglia alle Olimpiadi dal 2004, dal trionfo di Marcel Fischer sulla pedana di Atene.
In attesa che, finalmente, si cominci a fare sul serio e a raccontare di vittorie e sconfitte, non si può negare che finora il principale evento sportivo del pianeta sia cresciuto all’ombra di un virus. «Qui, nel Villaggio olimpico – racconta da Tokyo lo spadista ticinese –, nelle varie delegazioni e le tantissime persone impegnate nell’organizzazione si sono già contati oltre una sessantina di casi (in verità, stando ai dati aggiornati i contagi sfiorano ormai i novanta, ndr). Tuttavia, devo dire che tra noi atleti, almeno all’apparenza, questa cosa non la si vive come una fobia».
Anche perché, in fondo, la stragrande maggioranza di voi è vaccinata. A proposito: tu lo sei? «Sì, un mese e mezzo fa mi ero sottoposto alla prima inoculazione, e poi una ventina di giorni dopo mi sono beccato il Covid... In pratica ora mi ritrovo con una doppia protezione, ma posso garantire che tengo la guardia sempre molto alta. Del resto, con tutte queste varianti non si sa mai, e comunque puoi sempre diventare un portatore del virus senza per forza doverti ammalare: e basta un tampone positivo, qui a Tokyo, per essere fuori. Insomma, magari potrei permettermi qualche leggerezza in più rispetto agli altri, invece sto alle regole, igienizzando le mani il più possibile e seguendo i protocolli. Da questo punto di vista posso dire che qui sono stati allestiti tutti i dispositivi possibili per limitare al massimo le possibilità di contagio. Naturalmente, ben sapendo che non sta solo a te stesso, siccome conta pure il comportamento degli altri».
Non per nulla, a Tokyo la gente ha appreso con un po’ di preoccupazione la notizia che le Olimpiadi sarebbero andate in scena comunque. «Ammetto che non è stato bello leggere sui giornali, prima di partire, che l’opinione pubblica giapponese fosse contraria ai Giochi, beninteso a causa del Covid. Capisco benissimo, se è vero che come ho sentito il Giappone era rimasto molto indietro con le vaccinazioni, e mi rendo conto che non sia l’idea migliore del mondo mettere in piedi una simile manifestazione in un contesto del genere. Devo però dire che qui tutti sono super gentili e accoglienti, e semmai questo senso d’inquietudine legato a possibili contagi esista davvero, posso affermare che nessuno ce lo fa pesare».
La macchina organizzativa, però, a quel punto era inesorabilmente lanciata. Ma non c’è unicamente l’aspetto economico: l’altro giorno, il presidente del Comitato olimpico internazionale Thomas Bach ha apertamente dichiarato che erano gli atleti la sua vera preoccupazione. «È quello che mi sono sempre detto io, che oltretutto da due anni ho fatto della scherma il mio mestiere: che siano nel 2020 o nel 2021, in Giappone oppure no, a porte chiuse o magari a stadi pieni, l’importante è che questi Giochi li facciano. Noi atleti a quest’obiettivo abbiamo lavorato per tutta una vita, e in futuro non si sa mai cosa potrebbe succedere, siccome nessuno sa se fra tre anni (a Parigi 2024, ndr) avrà il posto garantito, né se sarà ancora all’altezza. E le Olimpiadi sono l’evento cardine nella vita di uno sportivo, che le sogna fin da bambino».
Lo dici perché è vero che li sognavi fin da piccolo? E, se sì, sapresti dire quando fu la prima volta? «No, sinceramente non ricordo (ride, ndr). Però è stato un pensiero ricorrente: è naturale, da bambino ci credi, poi più avanti ti dici ‘boh’, anche perché in una carriera ci sono tanti alti e bassi... Al punto che non ci credi nemmeno più, e magari ti viene l’idea di smettere. Certo che, però, appena vedi che si fa più concreta la possibilità, allora lì cominci davvero a pensarci. E il sogno inizia finalmente a materializzarsi».
Si sognano le situazioni, non le sensazioni. Ora che ci sei, e che non hai ancora avuto modo di gareggiare su quella pedana, le emozioni che stai vivendo sono simili a come te le saresti immaginate? «Il fatto è che, purtroppo, c’è tutta questa parte, anche burocratica, legata alla pandemia a cui bisogna abituarsi. Come i tamponi e i test salivari a cui ci sottoponiamo tutte le mattine, oppure l’applicazione che dobbiamo aggiornare e che tiene traccia di eventuali sintomi. Il Villaggio olimpico è bellissimo, certo, e c’è anche tanto verde, però è tutto un po’ claustrofobico, perché sai benissimo che in nessun caso potrai uscire, e tutto quanto c’è di Tokyo lo vedrai soltanto dal finestrino dell’autobus che ti scorta al palazzetto dove ci sono le gare. Detto ciò, credo che uno non riesca fino in fondo a immaginarsi prima cosa voglia dire esattamente essere qui, ad allenarti con i più grandi sportivi al mondo. Rivaluti te stesso, mentre ti dici ‘ehi!, sono arrivato fin qua’, ed è un grandissimo motivo d’orgoglio. È come se fossi finito in un altro mondo, il mondo per cui ho sempre lottato, e cerco di godermi ogni attimo di quest’esperienza. Naturalmente, cercando di portare a casa anche un risultato».
Già, perché alle Olimpiadi, e non ce ne voglia De Coubertin, riesumato fino alla noia, alla fine uno ci va pur sempre per vincere. E soprattutto dopo quello storico oro a squadre ai Campionati mondiali in Cina, tre anni fa, con gli stessi Heinzer, Steffen e Malcotti, tu sai bene cosa voglia dire. «Certo, al di là di tutto non siamo venuti fino in Giappone soltanto per partecipare. Vale sia nella prova a squadre, sia per me nell’individuale. Quando fantasticavo, le Olimpiadi me le immaginavo con una medaglia al collo. Quindi son contento di esserci, ma io e tutti gli altri conosciamo il nostro valore, e per noi è arrivare sul podio l’obiettivo. Sicuramente».
Nella folta rappresentativa rossocrociata in Giappone, del resto, tu con Heinzer, Steffen e Malcotti siete tra gli atleti maggiormente accreditati: la Svizzera dalla scherma s’attende una medaglia, o quantomeno ci spera. La sentite questa pressione? «Diciamo che siamo arrivati ai Giochi dopo un anno e mezzo molto complicato, con la pandemia che ha rimescolato un po’ tutte le carte. Dall’ultima gara giusto prima di entrare in ‘lockdown’, nel marzo del 2020, poi abbiamo avuto una sola prova di Coppa del mondo, a Kazan, praticamente un anno dopo, dove tra l’altro abbiamo staccato definitivamente la qualificazione olimpica. Pur se, dobbiamo essere onesti, in Russia non abbiamo fatto una gran gara, avremmo potuto ottenere di più. Adesso però siamo qui, e non ci nascondiamo: a Tokyo ci sono le migliori nove squadre al mondo, e noi siamo tra i favoriti per una medaglia. Quindi sì, ci mettiamo un po’ di pressione addosso, ma non ne saremo ossessionati: cercheremo di tirare al meglio, e ciò che verrà, verrà».
Un podio ai Giochi olimpici, qualunque esso sia, resta comunque un exploit: per riuscirci, c’è da immaginare che ci vorrà una giornata in cui vada tutto bene... «Di certo non ci saranno match facili, perché ai Giochi tutti gli atleti sono forti: non ci sono outsider, qui chiunque può battere chiunque. Specie nella scherma, in cui le variabili possono essere molte, e non c’è mai un chiaro favorito. Però non credo che ci voglia per forza una giornata perfetta: ognuno di noi dovrà fare il suo, e le pecche di qualcuno andranno compensate dai colpi eccellenti di qualcun altro. In altre parole tutti noi dovremo dare il 100 per cento, poi il risultato che arriverà sarà soltanto una logica conseguenza».