Un viaggio a Marbella nei 14 giorni che hanno preceduto l’arrivo a Melbourne, un Pcr dal risultato controverso. Altri due capi d’accusa per Novak
L’intrigo si infittisce, la posizione di Novak Djokovic si è indebolita. Pur avendo vinto un primo set grazie al verdetto del giudice Kelly che gli ha consentito di restare in Australia convalidandone il visto, il serbo in queste ore, oltre ad allenarsi nella speranza di poter prendere parte agli Australian Open, ha dovuto difendersi da un paio di capi d’accusa abbastanza pesanti.
Da un lato, la polemica relativa al suo test Pcr, del quale il noto giornalista americano Ben Rothenberg ha messo in dubbio la regolarità effettuando delle scansioni del codice Qr del documento che Nole ha presentato alla dogana al suo arrivo a Melbourne. Scansioni che hanno dato esiti che rimbalzano dalla positività alla negatività (lo hanno potuto verificare i curiosi che hanno effettuato il medesimo test). Una bizzarria che certo non giova alla causa del numero uno al mondo, il quale - e qui siamo alla seconda incongruenza di una vicenda che ne è piena, deve anche giustificare il fatto che a Capodanno e dintorni fosse a Marbella (presenza documentata, oggi ai social non sfugge nulla), mentre sul formulario d’ingresso in Australia ha dichiarato di non aver viaggiato nei 14 giorni precedenti il suo arrivo a Melbourne. Svista o dimenticanza che sia, tanto basterebbe, a rigor di legge, per incorrere in una sanzione e, di conseguenza, per vedersi rifiutare il visto d’ingresso che è al centro dell’intera vicenda. “Dare informazioni false o ingannevoli è un reato grave. Si può anche essere soggetti a una sanzione civile per aver dato informazioni false o fuorvianti”, si legge nel formulario doganale. Djokovic si è giustificato davanti ai funzionari di frontiera sostenendo che la dichiarazione di viaggio australiana era stata compilata da Tennis Australia a suo nome. Non che la spiegazione gli possa giovare granché, anche perché tale procedura può dirsi corretta? Si può davvero demandare a terze parti la compilazione di un documento che contiene dati personali? E quale peso ha, se poi emerge che ci sono delle irregolarità, magari a insaputa di chi ha permesso che a redigerlo fossero altri?
Un pasticciaccio con tanti protagonisti, ognuno dei quali con qualche zona d’ombra avvolgente e ingombrante. Con l’assoluzione piena non esce nessuno, da questa storia, a prescindere dall’esito della stessa. Djokovic, il più forte di sempre, con ogni probabilità anche il più titolato, a fine carriera (nella lotta per il più grande soffre la presenza di Federer e Nadal che hanno un paio di lunghezze di vantaggio) è in continuo conflitto tra risultati straordinari e l’affannosa ricerca del consenso popolare, riservato in quasi egual misura ai suoi rivali di sempre. Roger e Rafa i quali si spartiscono il cuore della gente che per il serbo batte decisamente meno. Lo sa, e non se ne fa una ragione. Vincente come nessun altro, rapace dell’attimo fuggente senza pari, ci era voluta una sconfitta cocente, quella della finale di New York dello scorso anno contro Medvedev che lo aveva privato del Grande Slam, perché finalmente gli appassionati di tennis gli tributassero l’omaggio che inseguiva da anni e che era convinto di meritarsi per i trionfi accumulati. Un paradosso all’interno di una storia densa di contraddizioni che rischia di portarlo ai piedi della scala, costretto a riguadagnare stima e affetto così faticosamente conquistati. Di perdere ancora, però, non se ne parla, ne va dell’orgoglio legittimo del fuoriclasse, la cui caccia al titolo ripartirà come prima. Avversata da chi non lo sopporta, sostenuta da chi fa il tifo per lui. In perfetto stile Joker, controverso e discusso, generoso e incurante, quantomeno superficiale nell’approccio alle delicatissime questioni legate alla pandemia.
Esce sconfitta anche l’organizzazione degli Australian Open che ha fatto carte false - e forse non è solo un modo di dire visto che il formulario doganale contenente informazioni scorrette l’hanno redatto loro - per avere in tabellone il numero uno al mondo, vincitore di nove edizioni, alla caccia dello storico Slam numero 21. Legittimi sogni di gloria da parte di chi ambisce a superare la concorrenza di Parigi, Londra e New York, celebrando il più titolato di sempre entro i propri confini. Ma a quale prezzo?
Hanno perso, eccome se hanno perso, anche le autorità di Canberra, colte alla sprovvista dal giudice Kelly, non abbastanza tempestivi nell’intervenire nonostante gli strepiti giustizialisti dei politici che si sono riempiti la bocca di concetti quali “la legge è uguale per tutti” ai quali però andrebbero fatti seguire i fatti. A patto, ovviamente, di averne l’autorità e di rispettare i termini di leggi che con l’esenzione medica si è cercato simpaticamente di dribblare. Con le conseguenze che conosciamo e che riempiono le pagine dei giornali e intasano i canali social.
Ne esce male il tennis, l’ambito che dovrebbe essere al centro dell’attenzione, a ridosso di un appuntamento dello Slam. Talmente ai margini della questione che manco ci si accorge che tra pochi giorni si gioca, a prescindere da Djokovic. Da tutto. L’imbarazzo dell’Atp la dice lunga. Intanto le palline restano sotto pressione, negli appositi tubi, perché la partita viene giocata fuori contesto, dove vigono regole meno chiare. In campo, se è dentro o fuori, al limite lo decide il “falco”, e fine delle discussioni. Nessuna possibilità di interpretazioni o speculazioni. Niente supposizioni: punto tuo o punto mio, non si scappa. Favolosamente chiaro.