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Coppa dalle grandi orecchie e dalle uova d’oro

Martedì, 19 settembre, scatta la Champions League e noi andiamo a scoprire le origini del trofeo continentale più prestigioso

19 settembre 2023
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Chissà come reagirebbe Gabriel Hanot, creatore della Coppa dei Campioni, se vedesse le formazioni – così cosmopolite e per nulla rappresentative delle identità nazionali – delle squadre che da oggi si sfideranno nell’edizione numero 69 del massimo trofeo continentale. Nell’Europa appena uscita dalla II Guerra mondiale, i popoli – vincitori e vinti – riversavano nello sport orgoglio e voglia di riscatto. E, nel mondo del pallone, erano molti a spacciarsi per i migliori, a cominciare dai tedeschi occidentali che, appena riammessi nel consesso civile, si erano laureati a Berna campioni del mondo. A reclamare il primato erano pure gli italiani, che del catenaccio erano diventati i massimi interpreti, gli svedesi – che esportavano fuoriclasse a getto continuo –, l’Ungheria che giocava meglio di tutti e l’Inghilterra che, malgrado le figuracce rimediate da quando finalmente aveva accettato di prender parte alla Coppa del mondo, continuava a ritenersi la detentrice del Graal.

Hanot, ex Ct francese che dirigeva la redazione calcistica dell’Équipe, un giorno del 1955 chiese ai suoi collaboratori di buttar giù i nomi di 16 squadre ritenute meritevoli di sfidarsi per lo scettro di regina d’Europa. Avuto il responso, spedì le partecipazioni e organizzò un torneo a inviti con tabellone tennistico da giocarsi dall’autunno alla primavera. Per scrupolo, interpellò la Fifa, giusto per sapere se a Zurigo avessero qualcosa da ridire. «Noi ci occupiamo solo di competizioni per squadre nazionali», disse il governo del calcio mondiale, «e lo stesso vale per le nostre emanazioni continentali, Uefa compresa. Dunque, fate ciò che volete».

Non ci volle molto prima di capire che una competizione simile oltre che divertente sarebbe stata assai remunerativa, dato che le televisioni di tutta Europa, neonate, avevano subito fatto sapere che l’articolo interessava, eccome. E così la Uefa, pure lei appena creata, fiutò il business e, dietro adeguato compenso, soffiò la gallina dalle uova d’oro ai suoi inventori e ne divenne proprietaria e tiranna, a patto che, almeno per il primo anno, le regole restassero quelle decise da Hanot e dai suoi colleghi. A cominciare dai nomi dei club partecipanti, che non per forza avevano vinto il rispettivo campionato. Il nostro Servette, per esempio, vi prese parte pur avendo chiuso in patria soltanto al 6° posto, al pari del Chiasso. Idem per Sporting Lisbona (3°) e Partizan Belgrado (5°).

Ma il bello è che, fra i 16 prescelti, vi fu qualcuno che addirittura declinò l’invito: ad esempio il Chelsea, che ricevette il veto dalla Federazione inglese, timorosa che la partecipazione dei Blues a quel nuovo strano torneo potesse falsare la regolarità del campionato d’Oltremanica. La defezione più clamorosa fu però quella dell’Honved che – potendo schierare gente come Boszik, Kokcsis e Czibor oltre al divino Puskas – era la squadra più forte del mondo: forse i magiari non avevano capito bene il potenziale di quella kermesse. A discrezione dei giornalisti dell’Équipe furono anche gli accoppiamenti del primo turno, pilotati per scongiurare scontri fra titani. Al Servette toccò dunque il Real Madrid, che ebbe la meglio a Ginevra (2-0) come a Chamartín (5-0). Quantomeno curiosa, infine, fu pure la totale libertà accordata ai club per scegliere le date in cui disputare gli incontri. E così ad esempio lo Stade Reims figurava già qualificato per la finale quando le altre due semifinaliste – il Milan e il Real che poi alzò la Coppa – nemmeno avevano disputato l’incontro di andata.

Tutto era dunque molto diverso da quanto accade oggi, quando ogni cosa è pianificata e controllata con precisione neurochirurgica e i calendari sono così fitti che il rinvio di un match dall’oggi al domani crea problemi come la chiusura del Canale di Suez. Qualche appassionato, però, secondo me sarebbe più contento se il calcio odierno avesse conservato almeno un briciolo dello spirito pionieristico di quei cronisti che, una sera in redazione, si inventarono ciò che oggi è noto come la Coppa dalle grandi orecchie.