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'I' come Ireland. E come Italia

Parla l'ex tecnico bianconero, fresco di nomina sulla panchina azzurra. 'Quando sono partito da Lugano, senz'altro qualcuno sarà stato contento...'

Ti-Press/Golay
4 aprile 2020
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«In italiano? No, non mi sento ancora pronto. È vero, sono migliorato, ma non così tanto da consentirmi di fare un’intervista in italiano» dice dall'altro capo del telefono Greg Ireland, 54enne tecnico di Orangeville, in Ontario, che dopo aver chiuso la sua parentesi a Lugano nella primavera 2019, a gennaio è ripartito dall'Italia: prima prendendo in mano le redini dei Bolzano, portandolo fino a un passo dalle semifinali dell'austriaca Ebel, campionato poi definitivamente cancellato quando la squadra era in vantaggio 3-0 nella serie dei quarti contro i cechi, poi - una decina di giorni fa - diventando ufficialmente il nuovo selezionatore della nazionale azzurra. In entrambi i casi, ironia della sorte, rimpiazzando il suo connazionale Clayton Beddoes. “Dopo la mia nomina a coach del Bolzano, Clayton era venuto a vedere una partita al Palaonda e poi siamo andati a cena. E quando mi è stata proposta la panchina dell'Italia, lui era in Canada: gli ho subito telefonato perché volevo che Clayoton sapesse che quell’incarico mi era stato proposto, non che ero stato io a candidarmi. Per me era importante che lo sapesse. Immagino che la scelta sia caduta su di me anche per il fatto che già conoscevo gente come Morini, Kostner e diversi giocatori del Bolzano. Considerato che quella italiana è una piccola Federazione, per me si tratta di una grande sfida: sono eccitato dalla prospettiva di prendere per mano quel gruppo e cercare di farlo progredire».

Non ci fosse stata la pandemia, avresti debuttato sulla panchina dell'Italia ai Mondiali di Zurigo e Losanna. «Già, ma si poteva comunque intuire che sarebbe finito tutto con la cancellazione. Non nascondo che sarei stato eccitato dalla prospettiva di giocare in Svizzera, a cominciare dall’amichevole che avremmo dovuto disputare il 24 aprile a Lugano proprio contro la selezione di Patrick Fischer: sarebbe stato un incontro doppiamente speciale per me».

Bolzano e l'emergenza Covid: 'Era impossibile mantenere la concentrazione sull'hockey'

E speciale dev'essere stato pure quello che è successo nei playoff con i Foxes, visto che il quarto di finale con lo Znojmo, in ossequio alle disposizioni del Governo ceco per le persone in arrivo dall’Italia, era stato segnato dalla quarantena imposta alla formazione ceca di rientro da Bolzano dopo gara 1. «Dopo aver vinto gara 2 a Znojmo, uno dei responsabili della Lega è venuto da noi dicendoci che avremmo dovuto giocare lì anche gara 3. Ma non soltanto: ci era pure stato chiesto di restare lì anche per le partite successive, ma io avevo risposto negativamente, ritenendo che la cosa non fosse solo ingiusta, ma pure poco sicura dal profilo della salute, vista l'emergenza legata al Covid-19. Così dopo gara 3 abbiamo fatto rientro a Bolzano in attesa che venisse trovata una soluzione per la quarta partita, ma vista l’impossibilità dello Znojmo a tornare in Italia, l'alternativa era continuare la serie da qualche parte in Austria senza far ritorno a casa tra una partita e l’altra. Poi, però, è arrivata infine la decisione di fermare definitivamente il campionato. E devo dire che se le ultime settimane sono state un po’ caotiche dappertutto, a Bolzano erano quasi pazzesche. C’era (e c’è) preoccupazione per la salute personale e per quella dei propri familiari: in un contesto così era semplicemente impossibile mantenere la concentrazione sull’hockey».

Un anno fa, di questi tempi, si chiudeva la tua avventura a Lugano. Hai ancora contatti con la società? «Sì, certamente. Nel periodo che ho trascorso in Ticino ho stretto parecchie amicizie con dirigenti, tifosi e giocatori. E pure con i giornalisti. Ritengo che quello sia stato uno dei più bei periodi della mia vita. Abbiamo lasciato che il contratto giungesse a naturale scadenza prima di decidere come proseguire, e ciò ha fatto sì che i rapporti tra me e la società restassero ottimi, sebbene le nostre strade si siano divise. Ho seguito con attenzione pure l’andamento della stagione in Svizzera, del Lugano in particolare: bene o male, un allenatore ha sempre un occhio attento su quanto avviene nel mondo dell’hockey, soprattutto nelle squadre da cui è passato».

Dalla National League alla Ebel la differenza sarà stata enorme: «Beh, logicamente in Svizzera il campionato ha molto più seguito. Sul piano sportivo, poi, i giocatori sono più veloci e tecnicamente dotati, sicuramente più degli austriaci. A Bolzano, per contro, avevo in rosa una decina di stranieri fra cui un portiere, e diversi giocatori col doppio passaporto, e questo alzava sensibilmente il tasso tecnico della squadra. Allenare nella Ebel, rispetto ad altri campionati, significa adattare costantemente l’assetto della  squadra a dipendenza dell’avversario che ti trovi di fronte. La grossa differenza col campionato svizzero sta nel livello generale dei giocatori che non sono stranieri: è evidente che sotto questo aspetto l’Italia presenta diverse lacune».

La pressione mediatica in Svizzera. 'Non c'è altro posto con una presenza di giornalisti tanto assidua'

Pure a livello di spogliatoio, sarà stato più facile lavorare in una realtà come quella italiana. «Se devo essere sincero, immagino che a Lugano qualcuno dei giocatori sia stato contento nel vedermi andare via... Penso a quelli che cercavo di spronare perché ritenevo non stessero esprimendosi al massimo delle loro capacità, ma sono pure convinto che la maggioranza di loro fosse dalla mia parte. Se così non fosse stato, non sarei durato tanto a lungo alla transenna. In uno spogliatoio, generalmente, si parlano sette lingue diverse, e non è mai facile, per non dire impossibile, essere sempre tutti sulla medesima lunghezza d’onda. A Lugano, poi, c’era parecchia pressione, com’è normale che ci sia in una squadra e in un campionato del genere: pressione da parte dei tifosi, della dirigenza, dello spogliatoio e naturalmente dei giornalisti. Anche a Bolzano c’è un bel seguito a livello mediatico, ma i giornalisti non assistono quotidianamente agli allenamenti come succede in Ticino: in questo senso, credo che non ci sia da nessun’altra parte una presenza mediatica tanto assidua, come nelle piste svizzere. In ogni caso, un buon allenatore deve essere capace di gestire tutto questo. Personalmente posso andar fiero di quanto sono riuscito a fare. Gli stranieri rimasti fuori dal giro della Nhl per un motivo o per l'altro e i giocatori cresciuti con il doppio passaporto li ho avuti sia qui a Bolzano, sia a Lugano: in questo senso una similitudine fra le due realtà c'è. Indipendentemente dal trascorso di ciascun giocatore, o dal colore del suo passaporto, l’obiettivo è comune per tutti e la chiave sta nel rispettare e valorizzare ogni tessera di cui si compone il mosaico. Poi, ovviamente, ci sono quegli elementi che sanno fare da collante per tutto lo spogliatoio. A Lugano, Alessandro Chiesa era uno di questi: era lui il primo a metterci la faccia davanti ai giornalisti quando le cose non andavano per il verso giusto. Certo, lui è il capitano, ma quello a Lugano, e in Ticino in generale, è un ruolo tosto da ricoprire. E se devo citare altri bianconeri con un certo ascendente sui compagni menzionerei pure Vauclair, Reuille e Sannitz».

Nei prossimi mesi ci sarà ancora spazio per uno spogliatoio di club, a fianco dell'avventura in qualità di headcoach della nazionale italiana? «A Bolzano avevo firmato un contratto a termine, quindi ero in scadenza, ma nel frattempo il club si è fatto avanti con un’offerta: dovremo però discutere dei dettagli, e non soltanto di quelli di tipo economico, quindi ora come ora francamente non saprei dire se si riuscirà davvero a trovare un’intesa. In altre parole, ora come ora non so che squadra allenerò: diciamo che mi sento un 'free agent', e vedremo dove la mia strada mi porterà. In Svizzera? Chissà - conclude - sarebbe sicuramente bello prima o poi farci ritorno».