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Avrei voluto celiare fino in fondo, ma...

Il grave incidente occorso alla giovane Muriel Furrer ci fa riflettere su quanto ancora ci si può spingere nella ricerca della velocità

Muriel Furrer
(Keystone)
27 settembre 2024
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Pur appartenendo da sempre al novero dei centri più innovativi al mondo, Zurigo in fondo non cambia mai: quasi perennemente grigia e piovosa, popolare ed elegante al contempo, più accogliente di quanto non si dica, e ovviamente cara come il fuoco. Nella città della borsa, un espresso è quotato fra i 5 e i 6 franchi, mentre per poter mingere devi sganciare un franco e cinquanta.

Il nostro Paese e la sua capitale economica sono spesso indicati come modelli di razionalità e perfetta organizzazione, ma per questi Mondiali hanno forse voluto un po’ tradire il loro Dna.

Basti dire che tutto il centro nevralgico della kermesse planetaria del pedale è concentrato nei 400 metri che dividono Kongresshaus e Sechselaeutenplatz, ma l’ufficio che rilascia gli accrediti – per il più arcano dei motivi – è stato invece piazzato alla Saalsporthalle, struttura tristanzuola che a un profano come me ricorda l’architettura sovietica anni 70, che sfortunatamente sorge a quasi 5 chilometri dal centro stampa, e che per raggiungerla devi dunque prendere il treno che va a Langnau.

Per il cronista appena sceso da un altro convoglio e costretto a trascinarsi dietro tutto ciò che si è portato dal Ticino – Zurigo è infatti anche la città in cui ti è concesso di fare il check-in in hotel solo dopo le 16 – si tratta innegabilmente di un grande scassamento di camilleriani cabasisi. Per di più, come già accennato, piove che Dio la manda, e quindi ben prima di mezzogiorno sei già inzuppato da buttar via.

Nella zona del traguardo delle gare – sulla già citata piazza dove in primavera viene dato fuoco al Böög per conoscere, in base a come brucia il fantoccio, che tipo di clima si avrà durante l’estate – faccio due chiacchiere con Matt, uno dei numerosissimi volontari che contribuiscono alla riuscita dei Campionati. Scopro che è inglese, che da diversi anni mette a disposizione parte del suo tempo libero in manifestazioni simili a questa, e che adora la Svizzera italiana, che conosce piuttosto bene.

Mentre mi spiega, spunta una ‘securina’ che gli si rivolge in Schwitzerdütsch. Lui le risponde che capisce soltanto l’Hochdeutsch. Meglio – ribatte allora lei in buon tedesco – sono greca, e quando provo a parlare in Züridütsch non so nemmeno io quello che dico.

E così, all’improvviso, ricordo quando, da ragazzo, appena finita la terza liceo, i genitori mi spedirono un mese proprio qui a Zurigo a lavorare in Posta. Così impari bene il tedesco, aveva detto mia mamma. Povera illusa: allo smistamento pacchi la lingua franca era l’italiano e, in seconda battuta, al massimo si sentiva favellare in castigliano.

Per quattro settimane, non mi capitò di pronunciare mai nemmeno un ‘nein’ o un ‘danke’, e il solo arricchimento con cui infine me ne tornai a Chiasso fu il salario corrispostomi dal Gigante giallo, che – non so oggi – ma a quei tempi gli avventizi li pagava molto bene.

In serata la notizia scioccante

Bello sarebbe poter giungere alla fine di questa colonna continuando a descrivere in leggerezza, in pratica celiando, questi Mondiali zurighesi, che avrebbero dovuto essere una festa, ma che purtroppo, dopo l’incidente di ieri, non lo saranno più. La realtà, infatti, racconta di una giovanissima ragazza svizzera che – come si dice nell’articolo qui a fianco – in un letto d’ospedale sta lottando per la vita per colpa della bicicletta, vale a dire proprio la sua più grande passione. Pare una contraddizione in termini, e probabilmente lo è veramente.

Davvero si fatica a comprendere, e soprattutto ad accettare, che da un momento all’altro ciò che più di ogni altra cosa ti regalava felicità, soddisfazione e realizzazione personale si possa trasformare nel più spietato dei tuoi nemici, un aguzzino capace di portarti fino alla soglia del dramma assoluto, facendo temere e ipotizzare a tutti quanti – a cominciare naturalmente dai tuoi cari – il peggiore degli scenari possibili.

La mesta realtà, però, è proprio questa, e ancora una volta ci ritroviamo qua, sgomenti, a fare voti e a implorare – non si sa bene chi o cosa – affinché il mondo del ciclismo, e un’altra disperata famiglia, non debbano di nuovo misurarsi con la tragedia.

La fatalità, certo, in questo genere di incidenti gioca sempre un ruolo enorme, determinante. È però innegabile che, col passare degli anni, sempre più spesso abbiamo a che fare con sciagure dovute, con ogni probabilità, alle eccessive velocità che le moderne biciclette – performanti oltre ogni immaginazione – sono ormai in grado di raggiungere.

La ricerca ossessiva, i materiali ai quali ormai si può chiedere sempre di più, e l’aumentata potenza degli atleti – anche giovanissimi – stanno forse conducendo questo sport verso limiti sempre più estremi, ed è probabilmente giunto il momento di fermarsi a riflettere, e magari fare un passo indietro. Gli incidenti in questo ultimo anno sono stati davvero troppi, e di una gravità che molti non sono più disposti a tollerare.