L'ex attaccante della Nazionale, autore di uno dei gol più importanti della storia rossocrociata, spiega perché ha lasciato il professionismo
«È la prima volta che parlo da quando ho deciso di lasciare il calcio professionistico, e lo faccio perché tengo a dire un paio di cose sulla mia carriera». Sono le prime di Mario Gavranovic da quando, alla fine della scorsa estate, ancor prima di compiere i 34 anni, ha deciso di lasciare il calcio professionistico. E lo fa da giocatore del Mendrisio, club a cui ha deciso di dare una mano, per amicizia, nell’anno del centenario del sodalizio momò.
«Sono orgoglioso di quanto ho fatto nella mia carriera», spiega l’attaccante capace di segnare 16 reti in Nazionale in sole 41 partite, fra l’altro disputate quasi tutte da subentrante o venendo sostituito a gara in corso: considerati i minuti realmente giocati, la sua è davvero fra le medie realizzative più alte della storia rossocrociata. Lugano, Yverdon, Xamax, Schalke, Mainz, Zurigo, Rijeka, Dinamo Zagabria e Kayserispor le tappe del suo solido percorso. «Voglio ringraziare tutti, a cominciare dalla mia famiglia, che mi ha cresciuto con valori che mi hanno fatto diventare la persona che oggi sono, e sono fiero di me non solo come atleta, ma anche come uomo. E poi ringrazio i compagni, alcuni dei quali sono diventati amici, i club, i due procuratori che ho avuto – Otto Luttrop e Milos Malenovic – entrambi fondamentali, e Roberto Maragliano, il mio fisioterapista di fiducia, sempre presente nei momenti duri della mia carriera, caratterizzati da infortuni».
Ma come è giunta la decisione di smettere col calcio d’élite? «Negli scorsi mesi, per motivi personali, ho deciso di smettere col calcio professionale per motivi privati: sto infatti divorziando e ritengo giusto stare più vicino possibile a mia figlia, che è la persona più importante della mia vita e che ormai ha cominciato ad andare all’asilo, e così ho scelto di tornare definitivamente in Ticino. Per poter continuare a giocare qui ad alti livelli c’era solo il Lugano, dove ho cominciato e dove mi sarebbe piaciuto terminare la carriera. Purtroppo, però, non è stato trovato un accordo, e così, dopo essermi comunque allenato tutta l’estate, ho deciso di smettere».
E poi è spuntato il Mendrisio… «Da anni ho amici qui, e quindi ho accettato di dare una mano. Purtroppo, però, dopo molti mesi senza allenamento, ho visto che il mio corpo non risponde più come una volta, e infatti mi sono già fatto male due volte. Spero di poter comunque fornire il mio contributo da qui alla fine della stagione». Escludi andare più in là? «Dubito fortemente che il mio corpo possa atleticamente sorreggermi ancora lungo. Ormai, dopo quest’anno, non potrò più fare il calciatore, ma mi diverto moltissimo a giocare a padel, e per fortuna non mi faccio male!».
Al termine di una carriera comunque ottima, c’è qualche rammarico? «Forse giocare in Serie A in Italia, perché quello era il mio sogno da bambino. Ho avuto diverse possibilità di andare in quel campionato, mi sono trovato più volte a dover scegliere fra l’Italia e un’altra destinazione, però alla fine ho sempre deciso per l’altra, perché mi sembrava migliore o più adatta a me. Ad esempio, una volta ho scelto la Dinamo Zagabria, che è la squadra del mio cuore: quando ero in uscita dal Rijeka, c’erano anche due squadre della Serie A interessate a me, ma io non ho avuto dubbi e ho deciso di andare alla Dinamo, anche perché giocava la Champions League. E ho fatto la scelta giusta, con quella maglia sono infatti cresciuto di livello, ho riconquistato la Nazionale e ho potuto disputare di nuovo Mondiali ed Europei. Ad ogni modo, sull’arco di una carriera, alla fine ognuno raggiunge quello che ha meritato grazie al suo effettivo valore. Quindi, se non ho fatto di più, significa che non ero abbastanza bravo per fare di più. Però non mi ero immaginato di terminare la mia carriera a 33 anni, anche perché stavo ancora molto bene alla fine della scorsa stagione».
Il momento più bello di tutto il tuo percorso? «Ho fatto una bella carriera, ma oggi pare che la gente si ricordi soltanto del mio gol contro la Francia agli ottavi degli ultimi Europei: pare che io abbia segnato solo quella rete, eppure in carriera ne ho fatte quasi 200. Da una parte è comprensibile, ci mancherebbe, perché si è trattato di un momento storico. Ha significato molto per un’intera nazione, e non soltanto per me: comunque è stata la partita con più emozioni, questo è certo. Purtroppo, pochi giorni dopo è giunto anche il momento più brutto della mia esperienza in Nazionale, anzi di tutta la mia carriera, perché abbiamo perso ai rigori contro la Spagna, dopo aver giocato almeno un’ora in 10. Un po’ di rammarico c’è senz’altro, anche perché avremmo potuto vincere, dato che loro avevano sbagliato il primo rigore con Busquets mentre noi avevamo subito segnato. Per la prima volta in carriera, mi ricordo, ho pensato prima del dovuto che avremmo vinto, e infatti poi è andata male. È stato un peccato, perché saremmo arrivati in semifinale. In realtà, ho qualche brutto ricordo anche del Mondiale del 2014: venivo da una bella stagione allo Zurigo, però mi feci male alla caviglia proprio nelle ultime settimane. Riuscii comunque a recuperare e a rientrare in extremis nei 23 che sarebbero andati in Brasile. Poi però terminai il torneo senza giocare neanche un minuto e col crociato rotto in allenamento. Quello è stato il momento peggiore in assoluto della mia carriera, perché quando c’è di mezzo il crociato sai che dovrai stare fuori almeno 1 anno, fra una cosa e l’altra».
È opinione diffusa che – data la tua facilità ad andare in gol – in Nazionale avresti meritato più spazio e più minuti… «Sono molto orgoglioso di quanto ho fatto in Nazionale. In effetti ho segnato parecchio, anche contro squadre forti, prestigiose. E poi in Nazionale ho giocato per molto tempo, credo una dozzina d’anni, tenuto conto dei due periodi, quello prima e quello dopo l’infortunio ai legamenti. Ogni tanto, certo, quando mi sentivo particolarmente in forma e quando segnavo tanto, avrei voluto giocare di più, perché credevo di meritarlo. Però non ho mai creato nessun problema ad alcun allenatore. Petkovic è stato il miglior allenatore che la Svizzera potesse avere, e io avevo molta fiducia in lui e molto rispetto per le sue decisioni. E così, cercavo di farmi trovare pronto nel momento in cui avesse deciso di farmi entrare».
E ora cosa vedi nel tuo futuro? «Ho iniziato a fare i corsi per diventare allenatore, ma la mia priorità è mia figlia. Quindi, non ho alcuna fretta: voglio staccare un po’, negli ultimi mesi non ho nemmeno seguito il calcio troppo da vicino. Ora ho trovato una certa serenità nella mia vita. Per il futuro, ad ogni modo, ci penserò, e vedrò quale sarà la cosa migliore per me».
Ma se arrivasse un’offerta, magari come assistente allenatore, accetteresti? «No, in questo momento no, ora voglio solo pensare a mia figlia e a me stesso. Ad ogni modo, mi sto già occupando di alcune cose, al di fuori del calcio, non è che me ne sto a casa a far nulla».
Perché dopo di te non sono più sbocciati in Ticino talenti capaci di imporsi in Nazionale o almeno in Super League? «C’è evidentemente un problema di fondo, perché non è possibile che il Ticino non riesca più a produrre talenti, ma è difficile capire quale sia questo problema. Qualcosa certo andrebbe cambiato a livello di formazione dei ragazzi, ma per sapere cosa, bisognerebbe essere più dentro all’ambiente».