Pier Tami deve decidere chi porterà la Svizzera a Euro 2024. Lo strappo tra il tecnico e i senatori del gruppo è ricucibile? Il precedente di Artur Jorge
I precedenti, a dirla tutta, non sono molto confortanti. O meglio, il precedente. Perché l’Associazione svizzera di calcio (Asf), una sola volta si è presentata a una fase finale di un grande torneo senza il tecnico che l’aveva portata fin lì. Era il 1995 quando Roy Hodgson, dopo la vittoria 3-0 sull’Ungheria e la qualificazione a England 96 dell’estate successiva, aveva ascoltato il canto delle sirene sullo scoglio nerazzurro di Milano e aveva salutato la Nazionale rossocrociata. Al suo posto, l’allora direttore delle squadre nazionali, Giangiorgio Spiess, aveva scelto il portoghese Artur Jorge, per un matrimonio durato ancor meno di quello di una coppia di ubriachi convolata a nozze in una “wedding chapel” di Las Vegas (dalla rottura con i tifosi per la mancata convocazione di Knupp e Sutter, a un Europeo durato tre partite e via, nonostante il pareggio all’esordio contro l’Inghilterra). Ma ventotto anni fa, la decisione di cambiare cavallo in corsa non era stata un’idea dell’Asf, bensì una necessità, considerata la ferma volontà di Hodgson di accasarsi alla corte di Massimo Moratti. Se nelle prossime settimane Pier Tami imboccasse la strada che porta alla rescissione di un contratto rinnovatosi in automatico sabato sera e decidesse di andare in Germania con un nuovo tecnico al posto di Murat Yakin, si tratterebbe di una prima assoluta. Una scelta forse doverosa, ma che una federazione cauta come quella elvetica potrebbe evitare di prendere, rinviando la resa dei conti a dopo Euro 2024.
Quello del selezionatore non è l’unico nodo lasciato sul pettine dell’Asf da una campagna di qualificazione difficile come nessuno si sarebbe immaginato. Certo, forse i 30 punti paventati dopo la prima convincente partita in Bielorussia (5-0) del 25 marzo scorso, rappresentavano un traguardo difficilmente raggiungibile (una giornata storta qua e là ci può sempre stare). Tuttavia, i 17 punti raggranellati in dieci partite sono davvero pochi. A titolo di paragone, la Scozia ha chiuso a 17 punti, la Croazia a 16, la Cechia a 15, l’Italia e la Serbia a 14, ma tutte lo hanno fatto in sole otto partite. Yakin ha senza dubbio la sua buona dose di responsabilità: scelte non sempre lucide sia nelle convocazioni, sia nella gestione dei cambi, schemi di gioco evanescenti, basati sostanzialmente sull’invenzione dei singoli, incapacità di tenere unito e coeso uno spogliatoio alla base, due anni e mezzo fa, dell’impresa di Bucarest contro la Francia negli ottavi di finale degli ultimi Europei... Tuttavia, in campo lui non ci va e – pur con alle spalle la preparazione tattica della partita e i possibili suggerimenti provenienti dalla panchina – una volta sul rettangolo verde a tirare i fili del discorso sono i giocatori. E proprio loro – o almeno lo zoccolo duro dello spogliatoio – devono essere chiamati in correo a giustificare la stentata qualificazione. Perché il metro di giudizio non deve essere legato ai chilometri quadrati di una nazione, bensì al talento che riesce a esprimere. È vero, la Svizzera è piccola, di conseguenza ha un bacino limitato dal quale attingere e se un giorno venisse a mancare la qualità ce ne si potrebbe fare una ragione. Ma di questi tempi il talento c’è, eccome. Forse non a sufficienza per competere un anno sì e l’altro pure con Francia e Spagna, ma sicuramente abbastanza per superare di slancio un girone di qualificazione nel quale quella elvetica era nettamente la formazione meglio piazzata nel ranking.
Non sarebbe nemmeno giusto generalizzare, perché c’è chi, questa Nazionale l’ha presa sul serio (un nome per tutti? Ruben Vargas), ma è vero che dall’estate in poi si è visto un gruppo sfilacciato, con giocatori le cui prestazioni si sono rivelate di un livello dannatamente inferiore rispetto a quelle proposte nei rispettivi club (Xhaka e Akanji in particolare). Emblematica, in tal senso, l’esultanza del clan italiano per la qualificazione a spese dell’Ucraina, paragonata con l’ambiente mesto e senza sorrisi vissuto sabato a Basilea. La colpa è stata attribuita alla rottura dei rapporti tra i senatori e Yakin, rottura certificata dalla dichiarazione post partita del difensore del Manchester City, il quale a chi gli chiedeva cosa avesse detto il c.t. quando a fine gara aveva radunato in cerchio giocatori e staff, ha risposto con un rivelatore «non ho sentito, c’era troppo rumore» (un modo come un altro per dire: chi se ne frega). Sembra chiaro che, in questo momento, ad avere il coltello dalla parte del manico è lo spogliatoio e non il tecnico, ciò che chiama in causa anche una federazione troppo debole, incapace di imporre la sua volontà a giocatori che, forse, di vestire la maglia rossocrociata si sono stancati.
Come andare avanti? Sabato 2 dicembre ad Amburgo verranno sorteggiati i gironi della fase finale. La Svizzera sarà inserita in quarta fascia, il che le permetterà di evitare almeno Italia e Serbia. Dall’urna potrebbe scaturire un girone terribile (Francia, Danimarca, Croazia/Olanda), così come uno più abbordabile (Germania, Romania, Slovenia). Tuttavia, i nomi delle tre avversarie a questo punto contano davvero poco. Se la Svizzera arrivasse alla fase finale così come ha chiuso le qualificazioni, se ne tornerebbe mestamente a casa senza lasciare segno. E allora come se ne esce? Sostituendo Yakin? Forse, ma non è che i candidati idonei abbondino e il ricordo dell’esperienza maturata con Jorge non è particolarmente incoraggiante. Prima ancora di pensare alla defenestrazione del c.t., occorrerà capire quanto è profondo il fossato che separa senatori e staff e se una riconciliazione è ipotizzabile. Il compito che attende Pier Tami è pari alla scalata in solitaria dell’Everest, ma la situazione va risolta, in una direzione o nell’altra, nel più breve tempo possibile. Le parole pronunciate da Granit Xhaka martedì sera a Bucarest, secondo le quali il capitano spera nella riconferma di Yakin («Cosa può fare l’allenatore se non siamo capaci di concretizzare le occasioni?») potrebbero sembrare il classico ramoscello d’ulivo offerto al selezionatore basilese. È però vero che i due avevano assicurato di aver sotterrato l’ascia di guerra già prima della sfida di Sion con Andorra, affermazione che gli eventi dei mesi successivi si sono incaricati di destituire di ogni fondamento.
Come procedere? Primo capire se esiste ancora margine di dialogo, secondo decidere se si vuole proseguire con Yakin in panchina e, terzo, in caso di risposta affermativa essere pronti a spalleggiare il tecnico fino all’estrema conseguenza di escludere dalla selezione coloro i quali non sono disposti a fare fronte comune, anche se si trattasse delle tessere cardine del mosaico rossocrociato.
E che non si venga a riesumare il discorso trito e ritrito della “svizzeritudine”, dei secundos e dell’inno cantato o meno. Il tanto criticato Akanji è di madre svizzera, nelle ultime due partite i migliori (per rendimento e attitudine) sono stati Zakaria, Garcia e Vargas, mentre per quanto riguarda l’inno, quando nessuno apriva bocca la “Nati” batteva la Francia, martedì quasi tutti l’hanno cantato e abbiamo visto come è andata a finire…