Calcio

Nessuno sarà mai amato come Bobby Charlton

Ricordo del più forte giocatore inglese della storia, spentosi sabato a 86 anni

23 ottobre 2023
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All’aeroporto di Monaco, l’apparecchio noleggiato dal Manchester United nemmeno riuscì ad alzarsi in volo. Era il 6 febbraio del 1958 e i Busby Babes, squadra dall’età media bassissima, tornando da Belgrado dopo un impegno di Coppa dei Campioni avevano fatto scalo tecnico in Baviera. Ghiaccio, neve e fango costrinsero il pilota a diversi tentativi di decollo, il terzo dei quali si rivelò fatale. L’Airspeed Ambassador, non volendone sapere di alzare il naso, sfondò le recinzioni della pista e andò a schiantarsi contro un capannone stipato di carburante. Il rogo che ne scaturì uccise ventitré persone: a morire furono ben otto giocatori, fra cui il ventunenne Duncan Edwards, da tutti considerato il miglior talento europeo della sua generazione. Fra i sopravvissuti, oltre al leggendario tecnico Matt Busby, c’era anche Bobby Charlton, che divenne poi un’icona dei Red Devils, del calcio inglese e di quello mondiale.

Se a vent’anni esci indenne da una simile disgrazia, puoi sentirti a ragione miracolato, e non dovresti nemmeno osare sperare di vederti recapitare altri regali dal destino - che ti ha già ripescato una volta - al quale dovresti soltanto tributare riconoscenza sempiterna per ogni giorno in più che ti è dato vivere: pretendere di ricevere un ulteriore bacio dalla Dea bendata sarebbe quantomeno irriguardoso. Immaginiamo dunque che Bobby Charlton non abbia chiesto al fato nulla più di quanto avesse già incassato, che abbia vissuto al meglio la seconda chance concessagli dagli Dei, e che dunque in tutta l’immensa gloria di cui riuscì a coprirsi negli anni seguenti non ci sia stato neanche un briciolo di buona sorte - che aveva ormai esaurito - ma soltanto lavoro duro ed enorme merito.

Per tutta la seconda parte della sua vita, cioè dopo il rogo di Monaco, Charlton disse che quell’esperienza terrificante lo segnò profondamente, e che non ci fu mai un giorno in cui non gli capitasse di ripensare ai suoi compagni morti. Quello choc fu forse ciò che fece diventare un ottimo atleta il miglior calciatore della storia d’Inghilterra, Paese che il gioco lo inventò. Nel senso che, probabilmente, la tragedia lo indusse a impegnarsi ancor di più in ciò che faceva, come se si portasse addosso la responsabilità di far rivivere in lui e di far vincere - insieme a lui - Dunca Edwards e tutti gli altri.

Figli di un minatore e nipoti di cinque zii - i Milburn, tutti calciatori professionisti - i fratelli Jackie e Bobby Charlton, nati nel nord, quasi al confine scozzese, scelsero il pallone per sfuggire a un futuro fatto di gallerie, crolli e malattie polmonari. Erano entrambi bravi, ma Bobby - più giovane di un paio d’anni - era addirittura sublime. Scoperto diciassettenne dal guru Busby, lasciò ancora ragazzino casa e famiglia per andare a Manchester a scrivere la sua storia calcistica e, insieme, quella del suo Paese. Charlton vinse tutto quel che c’era da vincere, e lo fece sempre con grande classe e stile.

Non solo per i gli appassionati di football, ma per tutti gli inglesi, Charlton rappresentò moltissimo: la Seconda guerra mondiale era finita in fondo da pochi anni e l’Impero britannico stava pian piano perdendo, insieme a molti pezzi, pure buona parte della supremazia a livello mondiale che l’aveva caratterizzato negli ultimi tre secoli. Anche nel calcio, oltretutto, le cose andavano male: dopo essersi rifiutati a lungo di partecipare ai Mondiali - ritenendosi superiori a tutti - quando finalmente gli inglesi acconsentirono a misurarsi coi comuni terrestri rimediarono clamorose mazzate, e dunque avevano estremo bisogno di un campione che fosse capace di ristabilire ciò che ritenevano essere l’ordine naturale delle cose.

E lo trovarono appunto in Bobby, che dapprima regalò all’Inghilterra l’agognato titolo iridato del 1966 e poi trascinò il suo Manchester United sul trono continentale (1968), dando il là a una tradizione vincente per le squadre inglesi che sarebbe durata quasi una ventina d’anni. Per tutto ciò - e per le sue doti di fuoriclasse e leader nemmeno lontanamente avvicinate da gente come Keegan, Beckham, Rooney e Kane - gli inglesi non l’hanno mai dimenticato e c’è da scommettere che mai lo faranno.