Esattamente 70 anni fa nascevano lo stesso giorno i due più forti ‘liberi’ di un’intera generazione, così uguali e così distanti, in campo e fuori
A Cernusco sul Naviglio, cintura nord-orientale di Milano, il 25 maggio 1953 nasceva Gaetano Scirea, figlio di una casalinga e di un operaio della Pirelli, in un’Italia che stava facendo le prove generali per il boom economico che, di lì a qualche anno, avrebbe tolto la nazione dalle sabbie mobili post-belliche e post-fasciste per portarlo a una dimensione europea e a una ricchezza mai nemmeno immaginata nel passato. Lo stesso giorno – poche ore più tardi e 6mila km più a ovest – vedeva la luce anche Daniel Alberto Passarella, discendente di emigranti italiani targati Potenza e trapiantati a Chacabuco, a 200 km da Buenos Aires: l’Argentina è quella di Peron, Paese che invece la sua ricchezza – così opulenta all’inizio del Novecento – l’ha ormai perduta quasi tutta.
Nella Pampa come ai margini meridionali della Brianza, i bambini usciti dalla scuola pensano soltanto a due cose: la prima è il pallone e la seconda è la bicicletta con cui raggiungere il campo di calcio più vicino. Gli adolescenti Passarella e Scirea, però, giocano così bene che, presto, le due ruote non bastano più: finiti nel mirino degli osservatori, vengono arruolati nelle giovanili di club che da casa distano un bel po’ di chilometri, e dunque devono saltare su una corriera. L’argentino, dalla squadretta di quartiere, passa quindicenne al Sarmiento di Junìn, cittadina a 50 km dalla natia Chacabuco. L’italiano invece abbandona la Serenissima di Cinisello Balsamo addirittura a 14 anni, per approdare all’Atalanta. Non smette però di lavorare, e continua a fare il tornitore nell’officina di suo zio per alcuni anni, anche quando ha già firmato i suoi primi contratti da professionista: non si sa mai, infatti, come vanno le cose nel mondo del calcio.
Ingaggiato dal River Plate poco prima di compiere vent’anni, Passarella mette subito in mostra le sue qualità tecniche, fisiche e caratteriali. Somaticamente, Daniel è un indio fatto e finito, segno che integrazione e assimilazione, quando queste parole ancora non si usavano, avvenivano in maniera assai naturale, nel giro di un paio di generazioni al massimo. Alto poco più di 170 cm per 70 kg, gioca come libero ed è un atleta perfetto, dotato di coordinazione invidiabile, tempismo fuori dal comune e uno stacco da terra da pallavolista che gli consente di segnare molto spesso di testa. Nei piedi, poi, ha la dinamite, e così calcia tutti i rigori e quasi tutte le punizioni. Queste doti ne faranno il difensore più prolifico della storia del calcio, dopo Ronald Koeman: 178 reti (di cui 22 in nazionale) per l’argentino, 207 gol per l’olandese. Piedi buoni, anzi superlativi, li possiede anche Scirea, che a Bergamo inizia da ala destra per poi passare regista col numero 10, e infine arretrare fino alla propria area di rigore per diventare, insieme a Daniel nella lontana Argentina, il miglior libero della propria generazione. Anche il lombardo, fra l’altro, non perde il vizio del gol che aveva da ragazzo: ne segnerà parecchi, e tutti esteticamente bellissimi. Col numero 6 sulle spalle – anche qui come Passarella – Gaetano lascia i nerazzurri dopo un paio di stagioni strepitose e si accasa alla Juventus, il massimo a cui possa aspirare un calciatore italiano a metà degli anni Settanta.
Scirea fu probabilmente il difensore più forte del mondo in un’epoca in cui tutti picchiavano come fabbri ferrai: eppure, in 17 stagioni da professionista, non fu mai espulso. E non perché fosse uno smidollato, ma semplicemente perché non ne aveva bisogno: non era mai in ritardo, nessun avversario riusciva a superarlo costringendolo a stenderlo con un fallaccio e, soprattutto, non ha mai litigato con nessuno. Passarella, invece, lo faceva di continuo e con tutti: quando passò all’Inter – dopo quattro stagioni nella Fiorentina – nell’ ’87 a Marassi arrivò perfino a mollare due calcioni criminali a un ragazzino, un raccattapalle, colpevole di aver ritardato la consegna del pallone. Venne squalificato per sei giornate, e in Italia smisero tutti di amarlo. Molto rude era dunque l’argentino, la cui indole fumantina lo indusse a collezionare cartellini gialli e rossi. Carattere ruvido e leadership innata ne fecero, già da giovanissimo, un vero duce dentro e fuori dal campo. Dovendogli trovare un soprannome, si capì presto che a un tizio simile non si sarebbe potuto affibbiare uno dei classici nick argentini, cioè Flaco, Tano, Gordo o Turco. Si optò dunque – a immagine di un certo tipo di dittatore che nel Novecento aveva spopolato sia in Europa sia in America Latina – per El Caudillo, apodo dal quale negli anni ci si discosterà soltanto per l’altrettanto eloquente e quasi sinonimo El Kaiser.
Scirea invece, leader composto e silenzioso che comandava solo con l’esempio, di nomi di battaglia non ebbe mai bisogno: al massimo i compagni arrivarono a chiamarlo Gai, che nemmeno è un vero soprannome, ma una semplice abbreviazione. Eppure, pur così taciturno, fu sempre un punto di riferimento per i suoi compagni come pure per i suoi allenatori, specie Trapattoni e Bearzot. E, allo stesso modo ma per motivi opposti, Passarella divenne l’uomo di fiducia di tecnici come Menotti in nazionale o come Angel Labruna – ex componente della famosa Màquina degli anni Quaranta e Cinquanta – che fu a lungo suo mentore al River.
Molto simili per certi aspetti dunque i due liberi nati lo stesso giorno e destinati a diventare campioni del mondo, ma senz’altro agli antipodi sotto altri punti di vista. Ad esempio, ai tempi del vittorioso Mondiale casalingo (1978), Passarella era il cocco di un dittatore sanguinario come Videla – per il quale non ebbe mai parole di condanna – mentre Scirea con la politica non volle mai avere nulla a che fare – né direttamente né di sponda – essendo ai suoi occhi una cosa troppo corrotta e sporca. Idem per frode e truffa, reati che lo juventino – paradigma della rettitudine –mai avrebbe commesso, mentre quasi nessuno si stupì troppo quando a macchiarsene fu El Caudillo, da presidente del River – club dove viene ricordato non soltanto per la garra e i suoi ottimi trascorsi prima da giocatore e poi da allenatore, ma pure per la pessima gestione che lo contraddistinse da dirigente. Fu sotto la sua presidenza, infatti, che i Millonarios conobbero per la prima volta l’onta della retrocessione nel campionato cadetto. Dopo il Mondiale conquistato a Madrid nel 1982, Scirea invece di andare a festeggiare in discoteca coi compagni suoi coetanei – aveva solo 29 anni – preferì tornarsene in albergo a chiacchierare pacatamente in camera col quarantenne Dino Zoff, che era schivo quanto lui e col quale si trovava parecchio in sintonia.
Passarella, invece, fuggiva dal ritiro della Nazionale per andare a letto con mogli e fidanzate dei suoi compagni di squadra. E, quando non lo faceva, organizzava i peggiori scherzi da caserma, ad esempio spalmando di deiezioni umane le maniglie delle porte delle camere dei suoi colleghi. Quasi si stenta a credere che la stessa persona, diventata selezionatore dell’Albiceleste, fece parlare i giornali di tutto il mondo quando negò la convocazione ai giocatori coi capelli troppo lunghi – come ad esempio Redondo – segnale secondo lui di scarsa serietà.
Appese le scarpe bullonate al chiodo dopo carriere strepitose, Passarella e Scirea decisero entrambi di diventare allenatori. Gai, però, la professione non ebbe il tempo di praticarla a lungo. Divenuto assistente dell’amico Zoff sulla panchina della Juve, ai primi di settembre del 1989 venne spedito dal club in Polonia per visionare il Gornik Zabrze, futuro avversario in Coppa Uefa dei bianconeri. La Polonia in quegli anni era un Paese allo sbando, che scricchiolava come tutto il blocco comunista di cui faceva parte: la benzina, come molti altri beni, era quasi introvabile, i distributori ne erano spesso sprovvisti, e così chi si metteva in viaggio provvedeva a portarsi appresso qualche tanica di super, per rabboccare di tanto in tanto il serbatoio. La Fiat 125 su cui viaggiava Scirea tornando verso Varsavia venne urtata da un camioncino e prese fuoco all’istante. Con le portiere deformate dall’impatto e impossibili da aprire, il campione gentiluomo morì bruciato vivo con altre due persone. L’autopsia rivelò infatti che nessuno di loro aveva subito alcuna lesione causata dallo schianto. Scirea se ne andava trentaseienne, lasciando la moglie e un figlio – Riccardo – di 12 anni.
Di anni ne aveva invece 18 Sebastiàn Passarella, figlio maggiore del Caudillo, quando al volante della sua Suzuki Vitara interpretò male la segnaletica di un passaggio a livello e venne travolto e ucciso da un treno. Passarella, devastato, riuscì a superare lo shock soltanto grazie al lavoro, riuscendo nel biennio successivo a qualificare la Nazionale argentina al Mondiale del 1998. Ma il dolore provocatogli dalla perdita del figlio si insinuò come un cancro dentro di lui, tanto che molti dei suoi amici e familiari sospettano che la grave depressione e tutte le malattie di cui è caduto vittima negli ultimi anni traggano origine proprio da quell’incidente stradale che gli strappò un figlio e gli rovinò la vita. Prima di ammalarsi, però, nel 2017 El Caudillo stesso ha rischiato a sua volta di morire in strada, carbonizzato proprio come Gaetano Scirea, il suo alter ego europeo, così uguale a lui e al contempo così diverso. La Mercedes su cui viaggiava prese fuoco di colpo nei pressi di Santa Fé, e lui riuscì per un pelo a salvarsi abbandonando l’abitacolo, dal quale non fece però in tempo a estrarre nemmeno il borsello in cui teneva la foto del suo Sebastiàn.