Compie 85 anni El Narigon, medico e spregiudicato tecnico dell’Argentina campione del mondo nel 1986 oggi purtroppo vittima di una gravissima malattia
La storia del calcio è piena di episodi curiosi, al limite dell’incredibile. Pensate che ci fu perfino un allenatore che, incazzato come un mamba per aver subito due gol su palle ferme nella finalissima del Mondiale vinta 3-2, non volle festeggiare il trionfo, rifiutando addirittura di toccare la Coppa e disfacendosi della medaglia che gli avevano appena messo al collo – cimelio di cui perse immediatamente le tracce – senza rimpianto alcuno, perché a lui di certe cose non fregava nulla.
Quell’allenatore è Carlos Bilardo, che proprio in queste ore compie 85 anni, anche se probabilmente di questa ricorrenza non è nemmeno al corrente, dato che da qualche anno è vittima della sindrome di Hakim-Adams, patologia degenerativa che, inesorabile, lo sta isolando dal resto del mondo. Per quasi due anni e mezzo – per non dargli un dolore – i familiari gli hanno tenuto nascosta la notizia della morte di Maradona, che per lui era il figlio maschio che non ha avuto. Finché pochi giorni fa, il 7 marzo, sfruttando un attimo di distrazione degli infermieri che lo seguono 24 ore al giorno, si è impossessato del telecomando e da un documentario ha scoperto cos’è successo a Diego: non ha detto una parola, limitandosi a unire le mani come fa chi prega.
Bilardo, del resto, al Pibe deve moltissimo, ma pure Maradona deve qualcosa all’ex selezionatore dell’Argentina. Non ci si sbaglia di molto dicendo che El Diez il Mundial dell’86 lo vinse in pratica da solo, ma va pur detto che Bilardo conferì a Diego tutta la libertà di cui aveva bisogno e che negli anni precedenti, con le ingombranti figure del Ct Menotti e del capitano Passarella, non aveva mai avuto.
Nato nel 1938 nel quartiere bonaerense de La Paternal, Carlos Salvador Bilardo cresce calcisticamente con la maglia rossoblù del San Lorenzo. Il ragazzo, a ogni modo, non pensa solo al pallone: mosca bianca nel mondo del calcio, riesce infatti a laurearsi, e lo fa addirittura in medicina, specializzandosi poi in ginecologia. A vent’anni, da ala destra e segnando un gol, debutta in prima squadra contro l’Estudiantes: forse un segno del destino, dato che proprio con la maglia dei biancorossi disputerà le stagioni migliori e più vincenti della sua carriera da giocatore. Ma prima di sbarcare nel club di La Plata, va a farsi le ossa per quattro stagioni nelle serie minori, al Deportivo Español, continuando parallelamente a studiare e poi a esercitare come medico. Sarà solo nel 1965, a 27 anni, che El Doctor farà ritorno nel calcio che conta, appunto nell’Estudiantes, che con lui in campo come regista e Osvaldo Zubeldìa allenatore conquista il suo primo campionato (Metropolitano 1967) e addirittura tre Libertadores consecutive (’68-70), la Coppa dei campioni sudamericana.
Quando si dice regista, nel caso di Bilardo, non bisogna pensare a un raffinato stilista dai piedi fatati vocato unicamente a creare: se c’era da picchiare o provocare, certo non si tirava indietro. Esemplare è una sequenza facilmente rintracciabile su YouTube in cui l’argentino, nel tentativo di strappare il pallone dai piedi del divino George Best, riesce soltanto a martellarlo di calcioni su ginocchia e caviglie. Finché il nordirlandese, esasperato, prende il pallone con le mani, si gira, e lo consegna al suo aguzzino: vuoi la palla? eccola. Era la gara di ritorno dell’Intercontinentale del 1968, vinta dai sudamericani. Quell’Estudiantes – in cui giocava anche la Bruja Veron, padre della Brujita degli anni 90 e 2000 – era una squadra di mascalzoni, che amava buttarla in rissa e che, per vincere, non stava troppo a sottilizzare sui mezzi adoperati.
Nel 1970, a 32 anni, Bilardo smise di giocare a iniziò ad allenare, dapprima sulla panca del suo Estudiantes, poi su quella del Deportivo Cali, della nazionale colombiana, del San Lorenzo e infine di nuovo all’Estudiantes, dove vinse il Metropolitano dell’82 e si mise così in mostra da indurre i dirigenti della Federazione argentina ad affidargli il comando della Selección albiceleste, reduce dai fallimentari Mondiali di Spagna.
Noi ragazzini degli anni 80, la prima volta che vedemmo in televisione Carlos Bilardo scoppiammo a ridere: coi capelli annegati nella brillantina e quel naso leggendario che pareva disegnato dal suo concittadino Mordillo, era praticamente il gemello di Pippo Franco, guitto che all’epoca appariva in quasi tutti i b-movies italiani.
Vinto con (e grazie a) Maradona il Mundial dell’86 di cui parlavamo in apertura, El Narigon Bilardo, confermatissimo, si presentò quattro anni dopo in Italia per difendere il titolo iridato. La sua squadra, però, era meno forte di quella laureatasi campione all’Azteca, e lo stesso Diego, picchiato all’inverosimile da camerunesi, sovietici e romeni, non rendeva come avrebbe potuto. Superato il primo turno per il rotto della cuffia (fra le migliore terze), l’Argentina già agli ottavi di finale si ritrovò di fronte il Brasile, che come ogni volta era il grande favorito. E così Bilardo, consapevole della disparità delle forze in campo, si procurò un’arma non convenzionale. ‘Ganar, de qualquier manera’ era il suo motto, e dunque non stupiamoci se il dispositivo messo in atto non era proprio pulitissimo.
La sera prima del match contro i verdeoro, Bilardo ordinò a Miguel Di Lorenzo detto Galindez – ex magazziniere dell’Argentino Juniors che Maradona ha voluto diventasse massaggiatore della nazionale – di sciogliere un bel po’ di Roipnol in un paio delle borracce da portare in panchina. En el fútbol vale todo, replicò El Doctor quando l’inserviente gli domandò il perché.
Già da giocatore, Bilardo era maestro nell’esasperare gli avversari. La sua specialità erano aghi da siringa e spille da balia, che infilava nelle chiappe dei rivali. E, sui corner, tirava sabbia negli occhi ai portieri. Senza contare le provocazioni verbali: corna, impotenza, malattie in famiglia. L’Estudiantes, come detto, era una fantastica banda di pícaros, e il suo ciclo si chiuse non a caso quando la polizia argentina dovette arrestare tre di quei banditi. Li ammanettò sul campo, al termine di una mattanza vergognosa ai danni del Milan, nell’Intercontinentale del ’69, finita nella bacheca rossonera.
Davvero un gran personaggio El Narigon: quando allenava in Colombia, cenava spesso con Pablo Escobar e Miguel Rodriguez, i boss dei cartelli di Cali e Medellín. E sapete qual era il suo maggior rimpianto? Non essere riuscito a metterli d’accordo. Ma ci andò vicino, pare.
Ma torniamo a Italia 90: l’unico problema era evitare che gli argentini bevessero dalle borracce drogate, destinate ai brasiliani. Succede spesso infatti che i calciatori si dissetino dalle bottigliette degli avversari, nelle pause, quando medici e massaggiatori entrano in campo ad assistere un infortunato. I cospiratori decisero dunque che le borracce trasparenti sarebbero toccate ai propri atleti, mentre quelle verdi erano destinate ai brasiliani.
E l’occasione buona si presentò al 39’, quando Ricardo Rocha stese Troglio. Medico e massaggiatore argentini si fiondarono in campo per assisterlo. Quando si avvicinò Giusti, Di Lorenzo gli passò una borraccia verde e gli disse: non bere, fa’ solo finta e dalla a un brasiliano. E infatti, lui subito la allungò a Branco, offrendogli un cicchetto. Erano le 5 del pomeriggio e c’erano 34 gradi: il brasiliano se la trangugiò tutta.
Era stato fin lì il migliore in campo, ma nella ripresa sparì dalla partita. Ora ce la spassiamo, disse Bilardo ai suoi assistenti. Branco, dopo pochi minuti, si trasformò in uno zombie: guadagnato un corner, impiegò un minuto per rialzarsi. Sbagliava ogni passaggio, commetteva falli stupidi, perdeva qualsiasi contrasto. Famoso per sparare punizioni al fulmicotone, quel giorno toccava pianissimo i palloni verso la barriera argentina. Sbandava, con gli occhi allucinati, vagando per il campo senza meta. Poi, a dieci minuti dalla fine, Diego si fumò l’intera difesa brasiliana e toccò per Caniggia, tutto solo davanti al portiere Taffarel. El Pajaro non si fece pregare, mise la sfera in rete e a passare il turno furono Bilardo e i suoi ragazzi.
Quello delle borracce fu soltanto uno degli infiniti aneddoti relativi a questo meraviglioso personaggio che il calcio argentino ha saputo regalarci. Ma sarebbe scorretto ricordare Carlos Bilardo solo per ciò che di illegale combinava in campo e in panchina. El Doctor è stato infatti uno dei maggiori profeti del 3-5-2, modulo prudente nelle retrovie ma capace di esaltare al meglio – davanti – le qualità di giocatori come Valdano e Burruchaga, oltre naturalmente a quelle del Pibe, pupillo che ebbe poi la fortuna di allenare anche al Siviglia, nei primi anni 90.
Oggi ostaggio della malattia che gli impedisce per lunghi tratti della giornata di avere coscienza perfino di sé stesso, con un titolo conquistato (1986) e un altro scippatogli in finale quattro anni più tardi a Roma da un arbitro evidentemente in malafede, Carlos Bilardo resterà per sempre uno dei tecnici più iconici e vincenti della storia della Coppa del mondo.