Il match in programma stasera al Letzigrund va ben oltre l’aspetto sportivo, con protagonisti in campo e spettatori legati dalla Storia
Inizio anni novanta, una famiglia kosovara scappa dalla persecuzione e dalla guerra imminente nel proprio Paese e trova rifugio in Svizzera, più precisamente ad Augst, nel canton Basilea Campagna, dove si stabilisce, si adatta, si inserisce, si reinventa, crea nuovi legami. Inizia una nuova vita. In questa famiglia anche un bimbo di circa un anno, il più piccolo di tre fratelli, che sarebbe poi diventato uno dei giocatori più rappresentativi di sempre della Nazionale svizzera di calcio, di cui è ormai il più prolifico realizzatore della storia nelle grandi manifestazioni internazionali (4 gol nella fase finale dei Mondiali e altrettanti agli Europei).
Stiamo parlando di Xherdan Shaqiri, la cui storia ricalca, seppur con diramazioni differenti, quella di tante, tantissime persone che negli anni Novanta sono appunto fuggite dal Kosovo (e più in generale dai paesi dell’ex Jugoslavia) per cercare un futuro migliore nel nostro Paese, tanto che oggi la Svizzera ospita la più grande diaspora di albanesi del Kosovo dopo quella in Germania. Nella Confederazione vivono infatti circa 114’000 kosovari, anche se il numero di persone che provengono dal più giovane Stato d’Europa è nettamente superiore, visto che secondo uno studio del 2015 quasi 250’000 persone hanno dichiarato l’albanese come lingua principale e la maggior parte proviene proprio dal Kosovo, autoproclamatosi Repubblica indipendente nel 2008 e subito riconosciuta come tale dalla Svizzera, ma non da altre nazioni, Serbia in primis, che lo considera una propria provincia.
Un’opposizione quest’ultima che riporta alla mente quanto successo nel giugno 2018 durante la Coppa del mondo in Russia, quando dopo aver segnato nella vittoria 2-1 della Nati sulla Serbia, Shaqiri (sceso in campo con la bandiera elvetica su una scarpetta e quella del Kosovo sull’altra), Xhaka (pure lui di origine kosovara, ma nato in Svizzera) e capitan Stephan Lichtsteiner avevano esultato mimando il gesto dell’aquila bicefala, simbolo dell’identità nazionale albanese e percepito come provocazione politica nei confronti della Serbia.
Ecco perché il primo incrocio della storia tra la nazionale rossocrociata e quella del Kosovo, in programma stasera a Zurigo, seppur solo un’amichevole, non sarà una partita come le altre. No, il match del Letzigrund assumerà i crismi di una vera e propria festa del calcio e della vita (con parte dell’incasso che sarà tra l’altro utilizzato per vari progetti dell’Asf di sostegno al popolo ucraino): in campo, dove oltre a Shaqiri e Xhaka potrebbe scendere anche il terzo elemento della rosa elvetica (che in passato ha potuto contare anche sull’apporto del ticinese Valon Behrami) di origine kosovara, Andi Zeqiri, mentre tra le fila degli ospiti i giocatori dello Zurigo Fidan Aliti e Mirlind Kryeziu, quello del San Gallo Betim Fazliji, nonché Florent Hadergjonaj (ex Young Boys) e Toni Domgjoni (ex Zurigo) possiedono anche il passaporto elvetico; ma soprattutto sarà una serata speciale sugli spalti, dove sono attesi 20’800 spettatori (tutto esaurito), in rappresentanza di due e più popoli che il destino ha voluto intrecciare.
«Certo, ci sarò anche io al Letzigrund, prima ho allenamento per cui dovrò cercare di muovermi per arrivare in tempo, ma non potevo perdermi questa prima storica».
A parlare è Denis Markaj, ex giocatore tra le altre di Chiasso, Bellinzona e Lugano oggi in forza al Rapperswil (Challenge League), il quale nel suo piccolo ha contribuito a scrivere la storia della nazionale del suo Paese d’origine. Nato a Gjakova (cittadina dell’ovest del Kosovo) da genitori entrambi kosovari, all’età di un anno Denis e la madre hanno infatti raggiunto il padre venuto in Svizzera in cerca di lavoro, più precisamente a Baden, da dove è partita anche la sua discreta carriera calcistica che nel 2015, quando giocava nel Lugano, lo ha portato a vivere un momento davvero speciale… «Ho vestito in due occasioni la maglia del Kosovo – ci racconta il 31enne, di ruolo terzino –, anche se all’epoca la nostra nazionale non era ancora riconosciuta da Fifa e Uefa e aveva ricevuto da poco il via libera per disputare, a determinate condizioni come ad esempio l’impossibilità di esporre bandiera e altri simboli, almeno delle amichevoli. Ricordo bene quelle due partite contro Guinea e Albania, fu un’emozione davvero intensa poter rappresentare il mio Paese d’origine, in particolare nel secondo match contro un’Albania che per il Kosovo rappresenta una sorta di fratello maggiore. Giocammo a Pristina e fu anche l’occasione per festeggiare la loro prima qualificazione a un grande evento, gli Europei del 2016. Fu davvero speciale, lo stadio era pieno, 25’000 persone che esultarono sia ai loro gol sia ai nostri. Finì 2-2, una vera festa».
Nel 2016 il Kosovo è stato infine accolto ufficialmente nei ranghi dei massimi organismi del calcio europeo e Mondiale, potendo così prendere parte alle qualificazioni dei grandi tornei, anche sotto la guida del tecnico elvetico Bernard Challandes (dal marzo 2018 all’ottobre 2021)... «L’interesse verso la nazionale continuò a crescere e a ogni partita c’erano giocatori più importanti che si aggregavano al gruppo, elementi che prima avrebbero scelto di giocare per l’Albania o per le nazioni in cui erano cresciuti, come ad esempio i Shaqiri e Xhaka per la Svizzera. Questo evidentemente a discapito di gente meno forte come me, ma era giusto così perché anche io volevo che la squadra crescesse, quello che potevo dare nel mio piccolo lo avevo già dato. Ora il Kosovo può contare su una rosa di qualità e lo si è visto anche con il bel cammino nelle qualificazioni agli ultimi Europei (terzo posto nel girone A dietro all’Inghilterra e di soli quattro punti alla Repubblica Ceca, ndr). E prima o poi arriverà anche la qualificazione a un grande appuntamento».
Una scelta quella di Shaqiri e soci che Markaj non condanna, anzi… «Di certo giocare per il proprio Paese d’origine non è la stessa cosa che farlo per un’altra nazione, ma ognuno è libero di decidere e non vedo niente di anomalo nel scegliere di rappresentare il Paese in cui sei cresciuto, che ti ha dato tanto come d’altronde è stato il caso anche per me con la Svizzera. Mi sento molto fortunato a vivere qui, ho potuto godere dell’ottimo sistema scolastico e in generale di un livello di vita molto buono, in Kosovo sarebbe stato tutto più difficile. Difatti mio papà decise di venire in Svizzera, dove mio nonno era già stato a lavorare, perché voleva darci un futuro migliore e gli sarò per sempre grato. Allo stesso tempo sono molto legato anche alle mie origini. Ammetto che se avessi avuto la possibilità di giocare anche per la selezione rossocrociata, non so cosa avrei scelto, per cui non condanno di certo le scelte degli altri, così come nessuno in Kosovo ritiene i giocatori che hanno optato per la prima opzione come Shaqiri e Xhaka dei traditori. Anzi, le loro gesta sono sempre state seguite con entusiasmo dalla popolazione kosovara-albanese, tanto che sono certo che domani (oggi, ndr) sarà certamente una festa, a prescindere dal risultato. Anche perché si gioca a Zurigo, dove vivono moltissimi albanesi, come dimostrano le scene di giubilo per le strade della città in occasione delle vittorie più belle della Svizzera. Se ci fate caso, assieme alle bandiere rossocrociate quelle albanesi non mancano mai».
Figuriamoci stasera al Letzi, dove per una volta le "aquile" potranno volare libere.