Andrea Manzo, mister e uomo tra il passato bianconero e il presente sulla panchina del Chiasso: ‘Vedo grande disponibilità e voglia da parte di tutti’
«Ho ereditato una squadra con un’identità e dei concetti precisi, a significare che prima di me era stato fatto un buon lavoro. Ci ho messo del mio per quanto riguarda alcuni principi. Niente di nuovo, il calcio di certo non lo invento io». È questo lo spirito con cui Andrea Manzo si è affacciato alla realtà dell’Fc Chiasso, la squadra di cui ha assunto la direzione tecnica a metà novembre, dopo la sconfitta dei rossoblù a Sciaffusa (2-3) costata la panchina ad Alessandro Mangiarratti. Il quale è rimasto attivo in seno al club, che lo ha nominato direttore tecnico. «Ci siamo incrociati poco, è impegnato in altri ambiti – spiega Manzo –. Sull’avvicendamento non esprimo un giudizio. È successo anche a me. Il nostro mestiere è fatto anche di queste cose. Lo scambio che inizialmente ho avuto con Mangiarratti è stato molto professionale. Figura ingombrante? Non lo credo, no. Semmai può essermi d’aiuto. Chi gli ha proposto la nuova carica, gli ha sicuramente spiegato bene quali sono le sue competenze. Alessandro è un ragazzo molto intelligente, non dubito che abbia ponderato tutti gli aspetti del suo cambiamento di ruolo». Tornando al campo, che impatto ha avuto sulla squadra? «Cerco di dare ai ragazzi un’impostazione che poi possa essere tradotta in campo durante le partite. Li ho trovato tutti molto disponibili. Ho chiesto loro determinate cose, e le stanno facendo con entusiasmo. Trovo molto positivo che ci siano predisposizione al lavoro, voglia di apprendere e massima disponibilità, da parte di tutti, in un momento in cui stiamo lavorando a pieno regime, spesso con doppia seduta. I conti si faranno ogni domenica, quando si tratterà di mettere in atto il maggior numero di concetti possibile su cui abbiano lavorato». Fiducioso? «È una squadra molto giovane, con giocatori con ampi margini di miglioramento, ciò che agevola il compito di un allenatore che deve dare loro... linfa. Come detto, disponibilità e voglia di imparare la vedo in tutti, e questo comporta che il grado di attenzione aumenta, foss’anche solo di quel poco che può rivelarsi determinante, ai fini della prestazione».
Per accettare la proposta del Chiasso ha dovuto lasciare la guida degli Allievi A del Lugano (Coca Cola Junior League). «Mi è stata offerta la possibilità, l’ho presa al volo. Tuttavia a livello affettivo e di cuore il distacco mi ha fatto molto male. Se ci penso, soffro ancora. La cosa bella dei ragazzi giovani è che ti danno tanto, io a mia volta ho fatto lo stesso con loro. Sono felice di quanto ottenuto da agosto. Ho visto progressi molto interessanti. Sono tutti ragazzi ai quali mi sono affezionato. Per loro ero una sorta di padre calcistico. Insegnavo loro quello che secondo me va o non va fatto. Ho parlato loro della mia esperienza. Ho ricordato loro la storia di uno scemo – lo scemo sarei io – che lungo il suo percorso ha commesso degli errori, per fare capire loro come evitare di farli». Nonostante le gratificazioni e un ruolo tutto sommato più comodo, quello di formatore non giudicato per forza con i risultati, il richiamo del calcio professionistico ha avuto il sopravvento. «Ma non è un ruolo che ho abbandonato, almeno non del tutto. Qui a Chiasso faccio anche questo, insegno calcio. In ogni squadra, a meno che si parli di una realtà davvero importante con tanti calciatori in rosa già affermati, c’è modo di essere comunque formatore. Alcuni ragazzi con cui in passato ho lavorato a Lugano, ancora oggi mi scrivono per ringraziarmi per quanto gli ho dato lungo il loro percorso di crescita. In ambito professionistico ci sono altre dinamiche. Vivere determinate emozioni, belle o brutte che siano, mi fa sentire vivo. Quando non avrò più voglia o non sarò più in grado di viverle, smetterò di fare l’allenatore». Tre le emozioni brutte, c’è certamente un esonero. Tra le ragioni che indussero Angelo Renzetti a sollevare Andrea Manzo dall’incarico di allenatore del Lugano, il rapporto fin troppo confidenziale del mister con i giocatori. ‘È troppo amico dei calciatori’, disse il presidente bianconero. «Furono altre, le ragioni. Tra queste, la squalifica di quattro giornate (per aver reclamato in maniera veemente in campo in Lugano-San Gallo e aver poi preso la porta dello spogliatoio dell’arbitro Klossner). Ammetto di essere stato poco riflessivo, in quell’occasione. Ne ho pagato il prezzo. Non lo rifarei, ho imparato la lezione. Il coaching dalla panchina è molto utile, e per troppo tempo venne meno. La voce del mister la senti sempre, anche in mezzo a tanta gente».
Tra le cose che un allenatore di calcio deve mettere in conto, vi è anche l’esonero. Non sempre giustificato, forse, ma tant’è: è un’opzione aperta, a maggior ragione se il datore di lavoro è particolarmente emotivo. «Sono cose che succedono – ammette Manzo –. L’esonero l’avevo metabolizzato quasi immediatamente. È stata molto più dura, per contro, non essere sul campo per un periodo lungo, quasi un anno e mezzo. Quel distacco sì che l’ho sofferto. L’interruzione di un rapporto di lavoro nel momento in cui le cose per il club non vanno come vorrebbe che andassero, succede. La cosa dura da sopportare è stata l’inattività e l’attesa di una chiamata. È dall’età di 8 o 9 anni che sono ogni giorno sul rettangolo di gioco. Adesso che ne ho 57, è ancora così: sempre in campo. Ormai è così da 50 anni, da una vita. È la mia vita, e continua a regalarmi emozioni che sono mie ancora oggi. Il giorno in cui mi verranno a mancare, sarà perché ho perso il senno». Con lo spogliatoio del Lugano legò parecchio e le venne quasi rimproverato. «Non sono amico dei giocatori, li rispetto. Sono abituato a dire le cose chiare e dirette, ma questo mica comporta essere amici. Si chiama semmai rispetto dei ruoli. Ovunque abbia lavorato, non sono mai stato autoritario, bensì autorevole. Devo fare in modo che i giocatori capiscano il mio punto di vista. Condivisibile o meno che sia, è finalizzato a un determinato tipo di calcio. Fortunatamente conosco la materia abbastanza bene. Mi tengo aggiornato, mi metto in discussione. Ciò che dico a un calciatore è il frutto di una riflessione dettata da quello che ritengo sia utile a un organico di 23 o 24 elementi. Se all’interno di un gruppo così eterogeneo riesco ad averne solo due o tre ai quali non sto troppo simpatico, significa che ho fatto un buon lavoro».
Nelle scorse settimane ha tenuto banco la questione Team Ticino. Da uomo di calcio attivo nella nostra regione, oltretutto in arrivo dal settore giovanile bianconero nel quale già lavorò a lungo alla testa della Under 21, Andrea Manzo si schiera a favore di una soluzione concordata che abbia quale unica finalità il bene dei talenti ticinesi che si affacciano al calcio d’élite. «La questione va affrontata nel modo giusto – dice –, con la collaborazione di tutte le parti in causa. Parliamo di persone intelligenti, in grado di capire quale possa essere il bene del calcio giovanile d’élite ticinese, che è l’unica cosa che conta in questo dibattito. Troveranno un accordo che accontenterà tutti. Ci sono piccole concessioni da fare, in deroga alle posizioni piuttosto rigide, su ambo i fronti, per il bene comune rappresentato dai giovani calciatori. Deve essere data loro la possibilità di lavorare nel modo migliore possibile, affinché alla fine del loro percorso formativo possano capire bene se la loro strada sia il calcio professionistico, o debbano invece intraprendere un’altra via, per il loro futuro. Nel calcio non s’inventa nulla. Ci sono vari metodi di lavoro. L’importante è il risultato finale. Ciascuno metta a disposizione dei giovani quanto di buono ha fatto, che sia nel Team Ticino o nel Lugano. C’è una strada comune da tracciare, con un solo traguardo, il bene dei ragazzi».