Paolo Tramezzani, ex allenatore del Lugano e nuovo tecnico dell’Apoel Nicosia, si racconta partendo dal momento più difficile: la malattia della moglie Elisa.
Paolo Tramezzani – ex calciatore tra le altre di Inter, Piacenza e Atalanta, nonché già allenatore di Lugano, Sion e che in settimana è diventato il nuovo tecnico dell’Apoel Nicosia – si racconta, partendo dal momento più difficile: la rara malattia della moglie Elisa, oggi guarita. Ma c’è spazio anche per Renzetti, per il calcio italiano e pure per l’aquila bicipite che tanto scompiglio ha creato nella nazionale rossocrociata.
Paolo, sappiamo che sei reduce da un periodo estremamente difficile e non certo per l’anno che hai passato senza allenare. Hai voglia di parlarcene?
Certo, perché fortunatamente ora il peggio è alle spalle, ma ricordo ancora tutto come se fosse ieri. Pochi giorni dopo l’ufficializzazione del mio passaggio al Sion, ero stato in ritiro con la squadra a Crans Montana, dal 22 giugno al primo luglio. Le mie due figlie e mia moglie mi avevano raggiunto in Svizzera il 3 e due giorni dopo abbiamo scoperto la malattia di Elisa. Il 5 luglio 2017, una data impossibile da dimenticare, perché è stato l’inizio di un periodo difficilissimo, un vero e proprio inferno. Per uno come me poi, abituato ad andare sempre al massimo, è stato davvero difficile dovermi fermare per una cosa simile. Anche perché non pensi mai che possa capitare a te o a qualcuno a cui tieni, ma poi quando succede, ti cade il mondo addosso. Non è possibile essere preparati a una cosa del genere. Eravamo in ginocchio, anche perché eravamo appena arrivati in un posto nuovo, dove si parlava una lingua diversa e non avevamo ancora nemmeno una casa.
Fortunatamente però poi, grazie anche all’aiuto del Sion, abbiamo reagito e trovato un’équipe specializzata all’ospedale di Berna, perché la forma di tumore alla colonna vertebrale che aveva colpito Elisa era davvero rara e molto grave, ma quei medici lo avevano già operato in passato. Anche per questo, dopo vari consulti, abbiamo deciso di rimanere a vivere a Montreaux e fortunatamente si è rivelata la scelta giusta. Per come è finita, posso dire che ho vinto campionato, Champions League e Mondiale.
Adesso quindi tua moglie sta bene?
Sì, ora grazie a Dio è guarita, anche se non mi sembra ancora vero di essere riusciti ad affrontare questa cosa e di essere qui a parlarne. Ma per fortuna è così e il bello è che la forza per andare avanti ce l’ha data proprio Elisa.
È stata tostissima, ha affrontato la malattia, l’operazione e le cure con una tenacia unica e ha trascinato tutta la famiglia.
Giustamente hai avuto altro a cui pensare, ma il calcio quanto ti è mancato?
Tantissimo. Nel limite del possibile ho cercato di rimanere aggiornato e quest’estate ho girato un po’ i ritiri delle varie squadre. Sono tornato nel mio mondo, insomma. E devo ammettere che cominciavo a sentirne la mancanza, raramente ci ero rimasto lontano così a lungo. Ho avuto la fortuna di iniziare a frequentare i campi da calcio da piccolino – a 9 anni ero già nel settore giovanile dell’Inter – e di lasciarli, come giocatore, a 38. Poi ho iniziato subito ad allenare, prima con le mie attività come la scuola calcio, in seguito per cinque anni alla nazionale albanese (dal gennaio 2012, ndr), prima delle esperienze a Lugano e Sion. Quasi tutta la mia vita l’ho passata sui campi da calcio, per cui è normale che non sono in grado di starci troppo lontano.
Per tua fortuna l’attesa è finita, visto che sei appena stato nominato allenatore dell’Apoel Nicosia...
È vero, sono molto contento, perché la voglia di tornare ad allenare era davvero tanta. Come detto il campo mi dà emozioni particolari, senza le quali arrivo a sera e ho la sensazione che alla mia giornata sia mancato qualcosa. Allo stesso tempo però ci tengo a dire che non avevo l’assillo di dover per forza e rapidamente trovare una panchina, perché dopo quanto capitato nei mesi scorsi, ho imparato a relativizzare tutto e a dare ancora più importanza a ogni istante che posso passare con la mia famiglia. Poi è arrivata questa opportunità ed ero di nuovo pronto a coglierla.
Adesso ti lancerai in questa nuova avventura a Cipro, ma pensi che ti rivedremo in Svizzera un giorno?
Mai dire mai, ma non credo, perlomeno non in compagini diverse da quelle che ho già diretto. In Svizzera ho avuto la fortuna di allenare il Lugano, che mi ha dato tantissimo. È stata la mia prima esperienza e penso che meglio di così non potesse andare. E poi ho potuto far parte di un club come il Sion che secondo me è speciale, lo capisci appena entri in quello stadio e dall’atmosfera che respiri, c’è grande passione in Vallese. Per questi motivi, oggi non vedo altre società in Svizzera nelle quali potrei rivivere quello che ho vissuto a Lugano e a Sion, a prescindere da come sono andate a finire.
Certo che vista la tua scelta di lasciare Lugano per Sion, il minimo che si possa dire è che sei uno a cui piacciono le sfide...
Effettivamente è così, le cose difficili da un certo punto di vista mi hanno sempre stimolato e dopo due esperienze per così dire “facili” con l’Albania e a Lugano, volevo qualcosa di diverso.
Segui ancora i bianconeri?
Il risultato del Lugano è il primo che guardo nei giorni in cui ci sono delle partite, lo seguo sempre con affetto e grande partecipazione, anche se non sono uno molto social e perciò non lo esterno in maniera particolare. Ma in fondo io sono sempre stato così, non ho mai avuto bisogno di rendere pubblici i miei sentimenti, ma è chiaro che per me Lugano è stato passione, calore, gioia e felicità. Ci sono stati anche momenti difficili, certo, ma proprio per questo è stata un’esperienza completa e bellissima.
Compreso il rapporto con il presidente Renzetti?
Certo, la mia esperienza in Ticino è stata speciale anche proprio perché c’era lui. C’è stata forse un’occasione in cui ci siamo “scontrati”, quando è venuto negli spogliatoi (dopo la sconfitta casalinga con l’Yb susseguente alla famosa “gita” in fabbrica, ndr), per il resto il nostro rapporto è sempre stato veramente bello. Anche perché di confronti ce ne sono stati, ma a me piacciono, fanno crescere. Ho dei ricordi di noi due che ci raccontiamo la nostra vita, sono frammenti che vanno ben oltre l’aspetto sportivo e che porterò sempre con me. Se oggi un allenatore mi chiedesse se andare o meno ad allenare il Lugano, gli direi di andarci di corsa.
E tu ci torneresti?
Assolutamente sì.
Cambiando discorso, tu che sei stato assistente di Gianni De Biasi sulla panchina dell’Albania, cosa pensi di quanto capitato ai Mondiali in casa rossocrociata, con il discusso gesto dell’aquila?
Innanzitutto lascerei fuori il discorso politico, perché non c’entra nulla. Ricordo la partita di qualificazione a Euro 2016 giocata a Belgrado (Serbia-Albania, il 14 ottobre 2014, ndr), interrotta dall’arrivo di un drone con la bandiera della Grande Albania con la scritta “Kosovo autoctono” (il match non si concluse, entrambe le squadre furono penalizzate, ndr). Lì sì, che fu una questione politica, mentre nel gesto di Xhaka sinceramente io che ho vissuto per cinque anni la realtà albanese, non vedo nulla di male, perché non era contro nessuno, bensì voleva trasmettere un senso di appartenenza che per chi ha origini balcaniche, rimane molto forte. Conosco benissimo i valori che hanno gli albanesi kosovari, so quanto hanno sofferto e quanto sono legati alla loro terra e capisco la voglia del giocatore di esternare il suo sentimento in un momento simbolicamente così forte. Poi non voglio dire se sia stato giusto, sbagliato, opportuno o no indossando la maglietta di un’altra nazionale e capisco che a qualcuno possa aver dato fastidio, però da parte del giocatore non lo ritengo un gesto negativo, anzi qualcosa di naturale e comprensibile.
Certo che però la Federazione rossocrociata avrebbe potuto gestire meglio la faccenda...
Questo sì, a maggior ragione visto che stiamo parlando di una nazionale che proprio nella multiculturalità ha la sua forza.
E la tua nazionale invece, quella italiana?
Mancini potrebbe essere l’uomo giusto, ha fatto bene a prendere le prime partite non come un banco di prova, ma come l’occasione per vedere all’opera più giocatori possibili e scegliere poi la strada da seguire. Che dovrà portare alla crescita dei nostri giovani senza pensare, nel limite del possibile, ai risultati. Perché il talento in Italia c’è, bisogna solo riuscire a valorizzarlo.
C’è tanta differenza tra allenare un squadra di club e una nazionale?
Sono due esperienze molto differenti. In una nazionale hai meno tempo per lavorare con i giocatori e di conseguenza come allenatore incidi meno sulle prestazioni. È più una sorta di gestione di una grande famiglia, che devi cercare di tenere unita. Allenare un club invece è bello proprio perché è un lavoro quotidiano, il rapporto con i giocatori, ma anche con la società e con la città, è più diretto. Io ho avuto la fortuna di vivere belle esperienze in entrambi i casi.
Infine che mi dici sulla Serie A? E sulla tua Inter?
Non c’è storia. Per lo scudetto, c’è solo la Juve, che già era la più forte prima, figuriamoci adesso con Cristiano Ronaldo. Per quanto riguarda il gioco invece mi piace vedere anche la Fiorentina, la Sampdoria, pure la Spal e l’Atalanta. Ma se vuoi vedere vincere, guardi la Juve. Questa è la Serie A in questo momento. Anche perché le sue avversarie hanno già perso troppi punti, a cominciare proprio dall’Inter. L’inizio negativo dei nerazzurri (4 punti nelle prime quattro giornate di campionato, ndr) mi ha un po’ sorpreso, perché ritenevo davvero ottima la rosa a disposizione di Spalletti ed effettivamente ora si sono ripresi, hanno iniziato a giocare da squadra e questo è fondamentale, prima viene il gruppo, poi i singoli.