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Max Schmeling fu davvero il pugile di Adolf Hitler?

Cade domani il ventesimo anniversario della morte del celebre campione che, suo malgrado, divenne strumento di propaganda per il Terzo Reich

In sintesi:
  • Campione del mondo  dei pasi massimi all'inizio degli anni Trenta, il pugile tedesco fu da Hitler sfruttato come strumento di propaganda del Terzo Reich
  • Considerato generalmente complice del regime nazista, in realtà Schmeling aveva idee piuttosto diverse da quelle del Führer
  • Memorabili soprattutto i suoi due match contro Joe Louis, emergente pugile nero  di cui poi divenne amico per il resto della vita
1 febbraio 2025
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Chissà cosa pensava il vecchio fighter ormai centenario poco prima di lasciare questo mondo esattamente vent’anni fa, il 2 febbraio 2005? Ricordava bene l’epoca lontana in cui era stato – suo malgrado – uno strumento di propaganda nelle mani di Hitler? Oppure la memoria, vetusto com’era, aveva sfumato – o del tutto cancellato – quegli eventi risalenti ormai a una settantina d’anni prima?

Di certo, quando Max Schmeling morì per le conseguenze di un forte raffreddamento, nonostante l’età era ancora lucido e in pieno controllo della propria vita. È molto probabile, dunque, che rimembrasse ancora molto bene la lontana epoca in cui era stato davvero al centro dell’interesse mediatico del mondo intero, anni che hanno segnato così tragicamente la storia dell’intera umanità. E, dunque, non aveva dimenticato tutte le speculazioni, le illazioni, le accuse che fecero da sfondo non soltanto alla sua carriera, ma all’intera sua esistenza.

Trovatosi a eccellere come sportivo in un’epoca e in un Paese alla spasmodica ricerca di eroi che aiutassero a cementare il consenso ideologico, Max era stato dapprima sfruttato dai nazisti a fini propagandistici, e poi, finita la guerra e caduto il regime, dall’opposta parte politica era stato cantato come esempio di coraggio per essersi invece dissociato dai disegni mortali del Terzo Reich. Un evidente paradosso: quale fu dunque il vero ruolo del campione Max Schmeling, classe di ferro 1905? La verità, come spesso accade, risiede nel mezzo. E, se così stanno le cose, è proprio perché il pugile della Bassa Sassonia non si è mai mosso per tornaconto personale: semplicemente, ha sempre fatto tutto ciò che riteneva giusto compiere.

Il ring come vocazione

Scoperta presto la sua vocazione per il ring, Max passò professionista prima dei vent’anni, scalò velocemente le gerarchie tedesche e continentali come mediomassimo e, nel 1928, varcò l’Atlantico per raggiungere gli Stati Uniti, dove risiedeva il pugilato che contava davvero. Laggiù, affidatosi alle cure di allenatori all’avanguardia e – soprattutto – entrato nelle grazie di un eccellente manager come Joe Jacobs, decise di metter su qualche chilo e diventare un massimo, categoria regina della boxe, quella che, in caso di successo, garantiva la maggior popolarità e di conseguenza i più lauti guadagni.

La sua carriera americana cominciò così bene che, nel 1930, fu scelto come avversario di Jack Sharkey per il match che a New York avrebbe messo in palio addirittura la corona mondiale – lasciata vacante da Gene Tunney –, incontro da cui uscì vincitore (primo europeo a farcela) grazie all’ottima preparazione ma pure a un po’ di fortuna: il padrone di casa fu infatti squalificato alla quarta ripresa per avergli inferto un colpo basso. Poco importa se, dopo una sola difesa vincente, il titolo gli fu strappato dopo un paio d’anni dallo stesso Sharkey: Max ormai era infatti diventato una celebrità, e non avrebbe certo faticato a trovare ricche borse per diversi anni a venire.

Le mire del Führer

Adolf Hitler non impiegò molto a mettere gli occhi addosso a quell’atleta tedesco che così bene incarnava il mito dell’eroe ariano e della presunta supremazia della sua razza. La prima volta che il cancelliere indicò Schmeling quale simbolo della Germania che aveva in mente fu nel giugno del 1933, quando era in carica da pochi mesi: il caso volle che il pugile dovesse sfidare in una specie di semifinale mondiale l’ebreo americano Max Baer, che sui pantaloncini usava fra l’altro sfoggiare una stella di David, e il Führer non si lasciò sfuggire l’occasione per ricamarci sopra tutta la sua folle retorica. Hitler, nella circostanza, non fu fortunatissimo: il tedesco fu infatti sconfitto. Lo aveva però fatto con onore – decisione dei giudici assai controversa – e tanto bastava al dittatore, felice comunque di possedere in Max una sorta di ambasciatore personale oltreoceano che, ne era certo, avrebbe presto avuto un’altra occasione per rifarsi.

E la grande chance, puntuale, si presentò nel 1936, grazie a un combattimento che, benché non prevedesse l’assegnazione della cintura, possedeva tutti gli ingredienti per catturare l’attenzione del mondo intero, ma soprattutto della Germania, che nel frattempo aveva fatto della questione razziale la pietra portante della propria politica. A incrociare i guanti con Schmeling sarebbe stato infatti il giovane Joe Louis, astro nascente del ring e, soprattutto, prima autentica stella ‘coloured’ dai tempi di Jack Johnson.

Joe Louis atto primo

Louis, nato in Alabama ma cresciuto a Detroit dove i genitori si erano trasferiti per affrancarsi dal Sud razzista e segregazionista, aveva fin lì colto soltanto vittorie (23), ed era un idolo in tutti gli States: innanzitutto per la sua gente, che vedeva in lui il simbolo del riscatto, ma anche per i bianchi, che nell’agonismo trovavano le poche consolazioni ai disagi provocati dalla Grande depressione.

Il ragazzo, che aveva già sconfitto sia Primo Carnera sia Baer – entrambi diventati negli ultimi anni re dei massimi – riteneva il match contro Schmeling (a sua volta come detto ex detentore della corona) il lasciapassare per poi andare a sfidare per il titolo James Braddock, il famoso Cinderella Man interpretato al cinema da Russel Crowe nel 2005. Per Max, invece, sarebbe stata l’opportunità per riaffacciarsi alle platee più importanti, specie se fosse riuscito a scendere vittorioso dal quadrato.

Alla vigilia del match – le cui implicazioni come detto travalicavano parecchio i confini del mero evento sportivo – i favori di bookmaker e appassionati erano quasi tutti riservati al ‘Brown Bomber’, soprattutto perché dalla propria parte aveva il dato anagrafico: l’americano era infatti 9 anni più giovane (31 a 22). Louis, però, peccò di ingenuità; sottovalutò il rivale, e si presentò fra le corde poco allenato.

Max invece, più navigato, non lasciò nulla al caso e curò nei dettagli la preparazione, svolta in un celebre club di boxe di Catskills gestito fra l’altro da una comunità ebraica. Una scelta che Hitler perdonò a Schmeling soltanto perché, contro ogni pronostico, il tedesco quella sera in uno Yankee Stadium straripante riuscì davvero a imporsi.

Iniziando in modo aggressivo, Max sorprese Joe, che finì al tappeto già alla quarta ripresa – mai fin lì gli era successo in carriera di appoggiare un ginocchio a terra – e tornò poi a mangiare la polvere dell’assito, stavolta definitivamente, al decimo round, quando fra l’altro, per via delle ferite riportate, non vedeva quasi più nulla. Per il Brown Bomber fu la prima delle uniche sue due sconfitte: la seconda sarebbe giunta contro Rocky Marciano soltanto tre lustri più tardi.

Uomini che piangono come bambini

«Ho camminato per la 7a Avenue», scrisse Langston Hughes, scrittore e attivista per i diritti civili che aveva assistito al match, «e ho visto uomini adulti piangere come bambini e donne sedute sui marciapiedi col capo fra le mani. In tutta la nazione quella notte, quando giunse la notizia che Joe era stato messo fuori combattimento, la gente piangeva». Lacrime a cui facevano da controcanto le celebrazioni e i peana di Hitler, che si era ormai impossessato della figura di Schmeling, e al pugile germanico non restò che adeguarsi al copione che si era ritrovato suo malgrado fra le mani, rilasciando dichiarazioni di elogio per il Führer, a cui dedicò il trionfo, e per il popolo tedesco, il pensiero del quale – disse – mai l’aveva abbandonato nel corso della contesa. Gli americani, ad ogni modo, cominciavano ad avere in odio il cancelliere e i suoi deliri, e così a sfidare Braddock per il titolo mondiale nel 1937 mandarono comunque Louis, che non fallì la propria missione.

A quel punto, il protocollo imponeva che fosse organizzata una rivincita fra il nuovo campione e quello che, ormai, agli occhi di tutti era considerato un’emanazione di Hitler, benché avesse fin lì declinato decorazioni ufficiali del Reich e nemmeno possedesse la tessera del partito nazionalsocialista. Oltretutto, continuava a rifiutarsi di licenziare il suo manager – il già citato Joe Jacobs – perché israelita, come dall’alto gli veniva richiesto, e soprattutto aveva fatto domanda della cittadinanza statunitense.

Amore non ricambiato

L’amore del Führer, dunque, non veniva ricambiato come ci si poteva aspettare: prova ne sia che, qualche anno più tardi, due ragazzini americani di origine tedesca ringraziarono pubblicamente Schmeling per averli dapprima nascosti nella propria camera d’albergo a Berlino e poi fatti imbarcare per gli States. Erano i figli di un suo amico ebreo, e aveva salvato loro la vita evitando che fossero catturati e spediti in un campo di sterminio.

La data della seconda sfida Louis-Schmeling venne fissata per il 22 giugno del 1938, quando la Germania aveva ormai annesso l’Austria e già minacciava di invadere il mondo intero. L’odio degli americani per Schmeling, simbolo nazista senza volerlo, si era dunque ulteriormente rafforzato, insieme però alla consapevolezza che si trattasse di un pugile temibile, come dimostrato la volta precedente. Tanto che il presidente F.D. Roosevelt, prima del rematch – già battezzato la Battaglia del secolo – volle invitare Louis alla Casa Bianca per dirgli che l’America aveva… «bisogno dei tuoi muscoli per sconfiggere la Germania».

Una sonora batosta

Fra i 70mila presenti allo Yankee Stadium, questa volta, a fare un tifo indemoniato per il beniamino di casa c’erano, oltre al boss dell’Fbi J. Edgar Hoover, anche diverse stelle del cinema, rappresentate da Clark Gable, Gregory Peck, Douglas Fairbanks Jr. e Gary Cooper.

Per il redde rationem, Louis non commise gli stessi errori della volta precedente e, per presentarsi sul ring al meglio della condizione, nelle settimane che precedettero la sfida rinunciò anche al golf e alle donne, i suoi hobby preferiti. E fece bene, perché grazie a una forma davvero invidiabile, stavolta non si fece sorprendere dall’avversario, e anzi lo demolì – mandandolo al tappeto ben tre volte – già nel corso del primo round, durante il quale l’afroamericano aveva portato la bellezza di 41 colpi, 31 dei quali a segno, a fronte dei soli due pugni sferrati dall’ariano.

Così lo stesso Max descrisse la scena newyorkese che vide dai finestrini dell’ambulanza che lo conduceva in ospedale, dove rimase ricoverato una decina di giorni: «Mentre attraversavamo Harlem, c’erano molte folle danzanti. Le band avevano lasciato bar e nightclub per mettersi a suonare sulle strade. E tutti cantando scandivano il nome di Joe».

E fu proprio nel corso di quella degenza che il tedesco diventò sodale di Louis, andato a visitarlo recando un mazzo di fiori: ne nacque un’amicizia che durò fino al 1981, quando Joe morì nonostante le cure che Max aveva provveduto a pagare. Schmeling chiuse invece definitivamente gli occhi, come detto, vent’anni fa, a 99 anni e mezzo. Per moltissimi anni era stato imbottigliatore e distributore della Coca-Cola per tutto il nord della Germania, sostenendo economicamente infinite società sportive giovanili, alle quali regalò piscine e palestre. Al suo comune di residenza lasciò invece ogni suo bene e avere, compresa la proprietà di 8 ettari in cui viveva da tempo immemorabile. Del resto, Max non aveva figli e sua moglie, la celebre attrice cinematografica Anny Ondra, era morta ormai da quasi vent’anni.