Trentatré skipper (tra cui tre svizzeri) in cerca di gloria a spasso per il globo, in una pazza impresa già segnata dagli incidenti di Crémer e Sorel
Bisogna essere un po’ pazzi e non sapere cosa vuol dire aver paura, per imbarcarsi in un’impresa come la Vendée Globe, la circumnavigazione del globo in solitaria, senza scalo né senza assistenza, scattata domenica dal leggendario porto francese delle Sables d’Olonne, in Vandea appunto. Venticinquemila miglia nautiche suppergiù, l’equivalente di 45mila chilometri, ovviamente a seconda dalla rotta che i velisti decidono di seguire (o che, per meglio dire, il vento permette loro di prendere) in balia di onde e raffiche, sperduti in mezzo all’oceano. Anche se, meraviglia del progresso, i trentatré skipper in lizza in questa nona edizione – tra cui lo zurighese Oliver Heer, primo svizzero-tedesco ad affrontare l’Everest dei mari, e i ginevrini Alan Roura e Justine Mettraux – non si trovano certo nelle stesse condizioni di coloro che venticinque anni fa si lanciarono per la prima volta nell’impresa, ai tempi in cui c’erano ancora i Telex mentre oggigiorno ci si imbarca tranquillamente con lo smartphone e l’immancabile telefono satellitare. E i regolamenti non solo permettono di fare uno squillo ogni tanto all’amata (o all’amato), ma persino di ascoltare musica su Spotify o guardarsi un film su Netflix. Amato o amata che non sono però né lo psicologo, né il mental coach, né chiunque altro possa fornire un qualsiasi tipo di assistenza, a cominciare dal cosiddetto ‘routing’ da terra, ovvero sfruttando qualcuno che davanti a un computer dia una mano all’ottimizzazione della rotta. Quattro anni fa, fu la francese Clarisse Crémer ad attirare su di sé i sospetti di averci provato, quando venne pubblicamente accusata di frode per essersi fatta aiutare dal marito. A sollevare i dubbi furono degli ‘screenshot’ fatti pervenire in forma anonima a due quotidiani, da cui si poteva dubitare che il suo compagno Tanguy Le Turquais, trentacinquenne esperto skipper, stesse cercando di fornire supporto riguardo alla rotta da seguire. Tuttavia, una volta analizzato il dossier, un anno fa la giuria internazionale aveva poi scagionato la coppia, valutando che le interazioni tra i due non potevano essere considerate come ‘routing’, sentenziando che l’uomo stava solo cercando «di comprendere le intenzioni di Clarisse, per accertarsi sulla sua sicurezza».
Già, la sicurezza: più che l’ossessione per classifica finale, è probabilmente quella la principale preoccupazione dei marinai che si mettono al timone per realizzare il sogno di una vita. Anche perché non passa giorno senza che alla Vendée Globe succeda qualcosa. In quest’edizione, ad esempio, alla terza notte in navigazione la già citata Clarisse Crémer ha addirittura perso in mare il gennaker, la vela principale per un’odissea del genere, al largo delle coste portoghesi. «Mi vergogno un po’, l’ammetto – si sfoga la velista sui social –. Una delle cime che lo reggevano s’è rotta mentre navigavo con un’altra vela che non sono riuscita a ridurre, e alla fine s’è creato un nodo pazzesco: ho cercato di ritirare il gennaker in barca, invano. Non avevo scelta: o l’albero o la vela, che è finita in mare con le scotte e tutto il resto, e così il danno è stato doppio».
Ma c’è però anche a chi è andata peggio, cioè a Maxime Sorel, francese pure lui, che dopo aver penato per risolvere un problema al gancio della randa, la vela principale, s’è storto una caviglia nel tentativo di porvi rimedio. «È gonfia, poco sotto il malleolo: la terrò sotto controllo e vedrò come va. Il mare era caotico, con 35 nodi di vento e raffiche a quaranta, ed è ancora troppo forte per provare a tentare qualsiasi cosa» spiega il bretone, la cui intenzione è quella di riparare all’isola di Madeira per provare a risolvere il guaio con un po’ meno vento.
Le disavventure di Crémer e Sorel, però, non hanno nulla a che vedere con ciò che, ad esempio, era capitato nella primissima edizione a Philippe Poupon e al suo ketch, che s’era adagiato su un fianco al largo del Capo di Buona Speranza, il punto più a sud del continente africano. Quando viene lanciato l’allarme, sul Telex si sottolinea che nessuno sa se Poupon sia ancora a bordo oppure no. Il primo ad arrivare sul posto è un altro partecipante alla Vendée Globe, e il rocambolesco salvataggio di Loïck Peyron di cui ancora si trovano tracce video sul web contribuirà a far nascere la leggenda della Vendée Globe. Ma soprattutto servirà da spunto per migliorare la sicurezza dei velisti, e non soltanto pensando alla resistenza delle imbarcazioni, arrivando a istituire la Zona di esclusione antartica, una settantina di punti Gps che formano una linea al di sotto dei quali i velisti non possono scendere, per evitare di imbattersi sciaguratamente in qualche iceberg. Perché ce n’era già stato uno di Titanic.