La morte della giovane ciclista svizzera lascia davvero sgomenti, anche perché finora non se ne conoscono i dettagli
Che la ragazza fosse caduta e poi trasportata in ospedale in elicottero, giovedì pomeriggio, ancora non lo sapeva nessuno.
Le immagini televisive della gara juniores, del resto, dell’incidente non avevano riportato nulla, e soltanto verso sera, poco dopo le 18.30, nella sala stampa presso la Kongresshaus a noi giornalisti era stato consegnato uno stringato comunicato che riferiva delle gravissime condizioni in cui versava, già da alcune ore, la diciottenne Muriel Furrer, talento in procinto di sbocciare del ciclismo svizzero.
Il testo, di poche righe, diceva che durante la competizione la ragazza era appunto rovinata a terra procurandosi un gravissimo trauma cranico, che le sue condizioni erano ritenute critiche e che, in mancanza di novità significative, null’altro sarebbe stato più comunicato.
Avevo allora chiamato l’amico e omonimo Ferrando per sapere se al quartier generale di Swiss Cycling presso il ristorante Chiffon – dove sapevo che lui aveva fatto un salto – qualcuno conoscesse qualcosa di più sulla dinamica e le circostanze dell’incidente.
E Stefano, in effetti, era riuscito a parlare con un autista al seguito della gara – passato in quel tratto di strada poco dopo che la sciagura si era verificata – che per primo aveva ipotizzato che la diciottenne, dopo aver perso in discesa il controllo della propria bici, fosse poi andata a schiantarsi contro un albero.
Null’altro si sapeva, e poco di più si sa ora, a due giorni dalla tragedia. «Ma – aveva aggiunto il collega della tv – ho la terribile sensazione che stiamo per rivivere il dramma dell’Albula dell’anno scorso». Si riferiva ovviamente a un’altra maledetta caduta in discesa, quella in cui al Tour de Suisse 2023 aveva perso la vita Gino Mäder. E, purtroppo, non si sbagliava, come avremmo saputo l’indomani. Nelle sue parole – e nel tono accorato in cui mi parlava – ho intuito la stessa tristezza e il medesimo sgomento che stavo provando anch’io, e che continuo a sentire ormai da un paio di giorni.
I giornalisti – in genere – sono abituati a dover riferire con un certo distacco di drammi e decessi, fa parte del resto del loro mestiere. Ma non è così scontato e per nulla frequente per i cronisti che si occupano di sport, disciplina che, per sua stessa natura, celebra invece la forza, la gioia e la vita. Ed è forse proprio per questa desuetudine alla tragedia che, quando ci tocca, ci sentiamo un po’ a disagio a doverne riferire, anche se poi, per senso del dovere, procediamo comunque e cerchiamo di farlo al meglio.
Forse, però, il particolare ramo del giornalismo che abbiamo scelto non c’entra nulla con la tristezza sconfinata che mi invade da quando si è consumata questa sciagura zurighese, e la maniera di reagire alle notizie ferali è soltanto una questione di carattere: ognuno, dopotutto, è fatto alla sua maniera. Oppure, ancora, lo strazio che alberga in noi dipende dal fatto che – sia io che Ferrando – abbiamo una figlia della stessa età che aveva la povera Muriel, e probabilmente ci siamo entrambi immaginati, per un istante, nei panni dei suoi genitori.
Comunque sia, nulla di ciò che io provi può naturalmente andare a mutare la realtà dei fatti, che è terribile perché parla di una ragazza che ha perso la vita quando ancora si stava accingendo ad affacciarvisi, e quando di sicuro aveva ancora intatti tutti i suoi sogni e le sue speranze.
Nessuno, tranne ovviamente chi le stava vicino, sa quali fossero questi suoi desideri: sappiamo però che alcuni di loro – forse i più importanti – avevano a che fare con la bicicletta, con lo sport, e pensare che a privarla di ogni cosa sia stata proprio la sua più grande passione, alla quale certamente stava sacrificando una parte di sé stessa e del suo essere così giovane, è qualcosa che davvero dilania il cuore.
La morte di Muriel Furrer, come del resto quella del suo collega Gino Mäder – andatosene in maniera assai simile solo quindici mesi fa – è di quelle che nessuno riuscirà mai a dimenticare, e l’unica speranza, se proprio vogliamo trovare una specie di consolazione, è che possa dopotutto servire a qualcosa. Anche se, pur mettendoci tutto l’impegno, davvero non riusciamo a capire in quale maledetto modo ciò possa mai concretizzarsi. STE