Il pianeta celebra il trionfo sudafricano, mentre s’interroga sul futuro di questo sport. Aspettando il Mondiale a 24 squadre e la scoperta dell’Eldorado
Sudafrica campione del mondo. Per la quarta volta su otto partecipazioni. Avevano dunque ragione quei tifosi indomiti che durante le prime due edizioni della Coppa del mondo, quelle cui gli Springboks non vennero ammessi come sanzione contro la loro politica di apartheid, esponevano regolarmente negli stadi uno striscione che recitava: ‘non sarete campioni del mondo finché non batterete il Sudafrica’.
E ora che il Sudafrica detiene da solo il record di vittorie nel torneo, dopo che in questa ultima edizione ha infranto nell’ordine i cuori dei francesi, degli inglesi e persino quelli degli All Blacks, tre vittorie di un punto, tre successi sul filo di lana, una domanda rimbalza sui tavoli di chi amministra le questioni dell’ovale: che cos’è questo rugby, che rugby vogliamo giocare?
Perché gli Springboks interpretano un gioco antico e feroce come la loro storia. Una storia fatta di faticosa conquista del territorio e di sua difesa, con metodi anche brutali. Fino al 1995 il rugby in Sudafrica era il gioco dei boeri, ossia di quella minoranza bianca che teneva in scacco il 90% della popolazione del Paese. ‘Invictus’, il film di Clint Eastwood sulla finale del 1995, anche quella fu fra Springboks e All Blacks, racconta lo sforzo titanico compiuto da Mandela per far accettare anche ai neri quello sport che per quasi un secolo aveva rappresentato la bandiera dei loro oppressori.
Allora, l’unico atleta di colore in un gruppo di tutti bianchi era l’ala Chester Williams. Quest’anno i neri in squadra erano quattordici, compreso il capitano (lo stesso che aveva alzato la Coppa nel 2019), Siya Kolisi. Nelson Mandela è morto nel 2013, il presidente attuale del Sudafrica è Cyril Ramaphosa, l’ex capo del sindacato dei minatori, l’uomo che a metà agosto al Forum dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha ribadito la necessità di un nuovo ordine mondiale più vicino alle esigenze dei Paesi emergenti, tra cui ovviamente spicca il suo. Dal 1995, il mondo è cambiato, è cambiato (in parte) anche il Sudafrica, ma non è cambiato il modo di intendere il rugby dei sudafricani. Capaci di vincere senza tenere, quasi mai, la palla in mano.
Nella finale dello Stade de France, gli All Blacks nonostante per 45 minuti siano stati in inferiorità numerica, hanno messo a segno l’unica meta del match, hanno avuto più possesso (60%), portato oltre la linea del vantaggio il doppio dei palloni degli avversari (66 contro 35), hanno battuto 36 difensori contro i soli 13 dei sudafricani. E sono stati costretti a effettuare solo 93 placcaggi, contro i 209 dei vincitori. Insomma, la Nuova Zelanda ha attaccato, ha provato in tutti i modi a bucare la difesa verdeoro, mentre gli Springboks avevano scelto di lasciare il pallone ai rivali, aspettare e colpire quando se ne presentava l’occasione. Lo hanno fatto grazie al piede di Handre Pollard, il numero dieci richiamato nel corso del torneo (era rimasto in bacino di carenaggio per un infortunio subito in primavera) per firmare con la sua precisione nei calci dalla piazzola tutte e tre le partite decisive.
Il Sudafrica si era presentato alla finale al dodicesimo posto, sulle venti partecipanti alla Coppa del mondo, nella classifica per metri guadagnati palla in mano, al decimo per velocità di uscita dei palloni dai raggruppamenti, il dato che fotografa la volontà di una squadra di dare ritmo al gioco, al nono per numero di visite sotto i pali avversari. Insomma una formazione votata a far giocare gli altri per sfruttarne gli errori.
Errori puntualmente commessi anche dagli All Blacks in finale: al terzo minuto un maldestro contrasto del flanker neozelandese Frizell sul tallonatore Mbonambi, quello accusato di un presunto insulto razzista (tipo “sporco bianco”, o qualcosa di simile) all’inglese Curry in semifinale, si è concluso con il tallonatore sudafricano costretto a lasciare il campo con un ginocchio fuori uso e il numero 6 della Nuova Zelanda espulso per dieci minuti. Poi, al 28’ è toccato al capitano Sam Cane (spallato sul viso di un avversario) incappare nel giudizio severo del “bunker”, il consesso di giudici, rigorosamente anonimi che, riuniti in una sala Var lontano dal terreno di gioco, possono trasformare la punizione temporanea (il cartellino giallo) in espulsione definitiva (cartellino rosso). In 14 contro 15 per il 60% del match gli All Blacks hanno subito la superiore fisicità degli avversari e non sono riusciti a trasformare il possesso in punti e gli attacchi in mete.
Gli arbitri sono stati i grandi protagonisti del torneo, al punto che prima della finale, Sir John Kirwan, ala campione del mondo nel 1987 con la maglia della Nuova Zelanda, poi ct dell’Italia e del Giappone, aveva detto: «La finale sarà decisa dalle decisioni arbitrali». Tante, nel corso dell’intera Coppa del mondo quelle controverse: dopo la vittoria del Sudafrica sull’Inghilterra, l’Equipe è uscito con una prima pagina molto provocatoria ‘Les Boks kiffent encore’, giocando sull’assonanza fra il verbo ‘kiffer’ – festeggiare, in francese – e il nome dell’arbitro O’Keeffe, che i tifosi dei Bleus hanno individuato come colpevole dell’eliminazione della Francia nei quarti di finale. Il torneo si è concluso con 56 cartellini gialli (un record) e 8 rossi, nel 2015 al Mondiale in Inghilterra ce n’era stato solo uno. Mai un giocatore aveva subito un’espulsione definitiva in finale.
All’Europa, per la quale qualcuno aveva sognato non solo la possibilità di tornare a conquistare il titolo, a distanza di vent’anni dal successo (2003) dell’Inghilterra in Australia, ma addirittura di portare quattro squadre in semifinale, è restata solo la consolazione del terzo posto degli inglesi, vittoriosi nel match per la medaglia di bronzo sull’Argentina.
Eppure, resta l’Europa il cuore economico del rugby mondiale. Dei Paesi dell’emisfero sud il Sudafrica lo ha capito per primo, traghettando nel 2021 le sue franchigie dal Super Rugby, dove affrontavano le squadre neozelandesi e australiane, allo United Rugby Championship, la vecchia Lega Celtica, in cui competono le formazioni gallesi, irlandesi, gallesi e italiane. Oggi Sharks, Stormers, Bulls e Lions, i club rispettivamente di stanza a Durban, Cape Town, Pretoria e Johannesburg sono stati ammessi anche alle Coppe europee. La scusa è stata che sulla linea del medesimo meridiano, o quasi, per i sudafricani è più semplice la trasferta in Europa, stesso fuso orario, di quella in Nuova Zelanda o in Australia.
La verità è che il Vecchio continente, sul piano commerciale, offre assai maggiori opportunità, investimenti televisivi più lucrosi, sponsor più ricchi. E il rugby dei campioni del mondo per tutte queste realtà è un’attrattiva economica forte.
Per gli All Blacks sconfitti di un punto in finale, il futuro sul piano organizzativo è tutto da inventare. Con l’Australia in crisi nera, eliminata per la prima volta al Mondiale nella fase a gironi, i neozelandesi sono alla ricerca di competizioni (e incassi) che permettano loro di trattenere in patria i giocatori migliori. Molti dei quali, tra una Coppa del mondo e l’altra, oppure a fine carriera, vanno a intascare i ricchi assegni del Giappone.
Ma non è un caso che l’ultima partita di preparazione estiva, prima della rassegna iridata, All Blacks e Springboks l’abbiano disputata a Twickenham, 82mila spettatori, dividendosi l’incasso (un terzo a testa) con la federazione inglese proprietaria dello stadio situato a sud di Londra.
Stadi più grandi, più pubblico, più risorse, sponsor più ricchi, un mercato più grande: questa è la forza dell’Europa, di cui il Sudafrica ha agganciato il traino. La Nuova Zelanda con i suoi 5 milioni di abitanti soffre la sua posizione geograficamente e commercialmente periferica. Ma resta depositaria di un’idea di rugby che molti ritengono quella più accattivante e spettacolare.
A Lione, dopo aver travolto l’Italia, 96-17, 14 mete a 2, Ian Foster, il coach degli All Blacks, ha detto: «Stasera avete visto un’idea di gioco, abbiamo mosso la palla, creato uno spettacolo, due giorni fa in Irlanda-Sudafrica avete visto un’altra cosa (intendeva: una partita molto più chiusa, più tattica, con poco respiro, poca fantasia, ndr). Il mondo deve decidere che tipo di rugby vuole vedere».
Un grido d’allarme che dopo la finale appare ulteriormente disperato: scegliete tra noi e loro. E non sembra rivolto ai soli tifosi, ma soprattutto alle televisioni, ai grandi organizzatori, ai padroni del vapore. Che dal 2027 allargheranno a 24 squadre la partecipazione alla Coppa del mondo (si disputerà in Australia). Quella successiva, nel 2031, sarà in America. Per molti l’Eldorado dello sport moderno. Un Eldorado verso il quale parte la corsa all’oro del pallone ovale del rugby. Di quello del football gli Usa sono già la patria senza rivali.