Lana Pudar, 16 anni, prima bosniaca oro agli Europei. È nata e cresciuta a Mostar, città divisa tra croati e musulmani, che non si accordano sui lavori
Lana Pudar ha 16 anni appena. Nuota, e nuota talmente veloce da aver vinto la finale dei 200 farfalla agli Europei di Roma, prima atleta bosniaca a salire sul gradino più alto del podio. Dicono che c’è un Paese in festa nei Balcani, ma non tutto. "Tutto" e "tutti", in Bosnia sono parole che non sono più contemplate.
Lana Pudar, che porta al collo la medaglia d’oro probabilmente più pesante di tutta la manifestazione, non avrebbe dovuto essere lì. Perché il talento non basta mai da solo, conta sempre dove e quando nasci, e lei è nata in uno dei tanti posti sbagliati per diventare una campionessa di nuoto.
È nata in Bosnia-Erzegovina il 19 gennaio del 2006: la guerra nei Balcani era già finita da un pezzo, eppure la sua vita è ancora condizionata da quella guerra, come tutte le vite di Mostar, uno dei luoghi simbolo di quegli anni disgraziati e fratricidi. Uno di quei posti in cui, se arrivi, puoi essere distratto e disinformato quanto vuoi, ma ti accorgi subito che qualcosa non va.
Durante la finale degli Europei di nuoto (Keystone)
Mostar è la città dello Stari Most, il ponte sul fiume Neretva bombardato e distrutto dai croati nell’autunno del 1993 per mostrare al mondo un’immagine potente della fine di un legame, quello tra bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) e croati. Non fu certo quello il giorno in cui morì la Jugoslavia, che era morta da un pezzo, ben prima dello scoppio della guerra, ma fu il giorno in cui si capì che non sarebbe bastato ricostruire il ponte per tornare alla vita di prima. Ci sarebbero voluti, ci vorranno decenni e intere generazioni per ritornare se non ad amarsi almeno a vivere senza guardarsi in cagnesco. In pace no, in pace è troppo. Perché non ci si spara più, ma ci si fa ancora male. E, soprattutto a Mostar, anche se in pochi sembrano capirlo, fare male agli altri è come farlo a sé stessi.
Prima dell’oro conquistato a Roma, Lana Pudar, non aveva né un nome né un cogonome per i suoi concittadini: era semplicemente la figlia di Velibor, vecchia gloria del calcio locale: bosniaco, figlio di serbi sposato con una croata e portiere del Velez, la squadra dei musulmani di Mostar. Sottolineare sempre provenienze e commistioni è un’abitudine e un vizio nei Balcani: "Di chi sei figlio?", "con chi sei sposato?", "per chi lavori?", "da che parte del fiume vivi?" sono domande che fanno tutta la differenza del mondo. Velibor Pudar è la dimostrazione vivente di come si potesse essere semplicemente jugoslavi.
Ora una cosa è chiara: tra padre e figlia i ruoli si sono invertiti, e Velibor – d’ora in poi – sarà il papà di Lana Pudar. Resta invece da capire come la ragazza sia riuscita a vincere una medaglia d’oro ai campionati europei di nuoto partendo da Mostar, che non ha una pisicina olimpionica, per colpa della guerra e di chi continua a combatterla con altre armi: soldi, politica, potere.
‘Non dimenticare’, la scritta sul lungofiume a Mostar (Keystone)
Pudar ha iniziato ad allenarsi in una piccola piscina fatiscente stupendo subito i suoi allenatori: la leggenda narra che, da bambina, per migliorare la bracciata si allenasse persino nella vasca da bagno. Di sicuro ha fatto pratica nella Neretva, dove i giovani locali prendono confidenza con l’acqua. Tra i più temerari c’è anche chi si lancia dallo Stari Most, con tuffi ad alto tasso di spettacolarità. Ma lei aveva altri progetti, pensava in grande, esattamente all’opposto di chi governa la sua città, che resta piccolo cercando di rimpicciolire il vicino sgradito. La solita storia: la piscina olimpionica si poteva, si potrebbe fare, ma i croati dicono che devono pagarla i bosgnacchi e viceversa.
Eppure dalla fine della guerra piovono soldi su Mostar: dalla parte croata arrivano dal Vaticano e dai Paesi cattolici, denaro con cui si continuano a costruire chiese, dalla parte bosgnacca sono i grandi Paesi musulmani come Qatar e Arabia Saudita a finanziare le moschee. E a ingrassare i conti in banca di chi tiene in scacco il Paese per tornaconto personale.
Le case sul lungo viale dedicato a Tito intanto cadono a pezzi come l’idea di quella Jugoslavia che non c’è più: sembrava d’acciaio, era incollata con lo scotch. Oggi passeggiare sotto quei caseggiati è una specie di roulette russa: ogni tanto cadono calcinacci, sono venute giù perfino le strutture messe lì per non far cascare il resto.
Il ponte distrutto, uno dei simboli della guerra nei Balcani (Keystone)
Una città in cui la guerra sembra sia finita ieri, in cui si può entrare, in pieno centro, in palazzi abbandonati e recuperare dei bossoli. In cui perfino chiedere il caffè sbagliato nel bar sbagliato (il caffè turco, detto anche "bosanska kafa", non è ben visto da un lato del ponte) può far inarcare sopracciglia e pure partire domande scomode. Mancano i soldi per mettere in sicurezza i palazzi, per far funzionare gli ospedali, figuriamoci per una piscina olimpionica.
A scuola va ancora peggio, vige la regola assurda chiamata "due scuole, un tetto". L’edificio è lo stesso, di qua s’impara una storia, di là un’altra, si gettano i semi per piante destinate a non fiorire mai. E i ragazzi – troppo spesso – diventano quello che gli adulti hanno chiesto loro di diventare. S’insegna in un’aula il bosniaco, nell’altra il croato: sono la stessa lingua, cambiano le inflessioni, qualche parola, alcune importate (dall’arabo) o addirittura inventate dopo la guerra, disposti a tutto pur di rimarcare una differenza. Non vogliono condividere né vocabolari, né spogliatoi, né letti di ospedale, tantomeno i soldi: meglio una piscina per nessuno, se è anche degli altri, che una piscina per tutti.
A Mostar si fa fatica a fare tutto se riguarda tutti: i progetti comuni, che sono di solito anche quelli più indispensabili, restano in un limbo che costringe chi vuole andare oltre a fuggire altrove.
Lana Pudar è stata costretta dal suo talento e dalla sua precocità a prendere decisioni in fretta, restando anche incastrata in meccanismi più forti di tutti, da quelle parti, figuriamoci di una ragazzina. Lo scorso anno alle Olimpiadi di Tokyo era considerata una possibile sorpresa, ma non riuscì a superare le semifinali: la giovane età, gli allenamenti a singhiozzo, le avversarie. Un anno dopo è tornata e ha vinto, la campionessa senza piscina, quella che ha imparato a restare a galla e poi nuotare meglio di tutti in un Paese che è il suo, orgogliosamente suo, eppure così diverso da lei: un Paese che affoga in un bicchiere d’acqua.
Tuffi nella Neretva, a Mostar (Keystone)