L'addio del 42enne pilota italiano, che a fine anno parcheggerà la moto. 'È stata un dura decisione da prendere, ma è arrivato il momento di dire basta'
Una delle battute più maligne lanciate a Valentino Rossi è arrivata dalla bocca di Casey Stoner. Era il 2011, il canguro mannaro stava per vincere il suo secondo mondiale, mentre il Dottore tribolava al primo anno di Ducati. A Jerez de la Frontera, una manovra azzardata di Rossi al settimo giro aveva portato alla caduta dell’australiano. Vano il tentativo di scuse ai box: «La tua ambizione ha superato il tuo talento», aveva chiosato con sarcasmo l’allora pilota dell’Hrc. Difficile dire se davvero, in un fuoriclasse come Valentino, fosse più grande l’ambizione del talento. Di certo la Desmosedici tra le sue mani non sembrava di gomma come la Yamaha. Se però si ribalta il senso della risposta di Stoner, per attribuirle valore positivo, allora si apprende una grande verità sul Quarantasei. L’ambizione, intesa come senso della sfida, è stata più importante del suo polso e della semplice fame di titoli. Lo dimostra la sua storia: chi si sorprende del fatto che abbia corso fino a quarantadue anni, dovrebbe ricordarsi di quante volte il pilota di Tavullia abbia imboccato la strada meno intuitiva – niente di strano per uno che ad Assen, all’ultima curva, in una spallata di Marc Marquez ci ha visto la possibilità di saltare cordolo e sabbia e aggiudicarsi la vittoria. È la natura di un uomo alla ricerca di nuovi stimoli, in uno sport di cui era diventato padrone di casa.
Rossi non si è mai accontentato di contare i titoli in salotto. Avremmo dovuto capirlo già diciotto anni fa. Chissà, forse quella gag a Brno nel 2003 – lui travestito da prigioniero con il piccone e la palla di piombo legata al piede – conteneva anche una patina di serietà. Condannato a vincere era il significato dell’esultanza. Anche per questo Valentino aveva deciso, contro ogni pronostico, di abbandonare Honda per abbracciare il progetto Yamaha, un team di metà classifica, il cui pilota di punta, Alex Barros, era arrivato appena nono a fine stagione. Rossi avrebbe raggiunto i quindici titoli di Agostini con la Honda? Possibile, anche perché forse la Tech-3 non avrebbe raggiunto quel grado di eccellenza. La sfida a sé stessi e alla tecnologia, però, viene prima della bacheca. Lo stesso ragionamento per cui, nel 2010, pur in ottimo stato di forma dopo la frattura esposta di tibia e perone che gli era costata il decimo Mondiale, aveva deciso di cambiare di nuovo squadra e di accasarsi alla Ducati.
La tradizione sportiva italiana non vive solo di personaggi ossessionati dalla vittoria. Anzi, le sconfitte hanno intagliato l’epica di alcune delle figure più amate, più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi successo. Forse perché le cadute, dentro e fuori dal campo o dalla pista, diventano un riflesso delle difficoltà e, nel migliore dei casi, della capacità di reagire: Pantani squalificato al Giro, Baggio relegato alla provincia, Totti che rischia di rimanere senza una caviglia prima del mondiale. Valentino Rossi rispetto a loro vive in un limbo, perché è stato un vincitore seriale e più di lui hanno raccolto solo Agostini e Nieto, però ha coltivato un rapporto con la sconfitta che è intenso tanto quanto i suoi trionfi. Chi se li dimentica i suoi occhi nel paddock nel 2006, dopo la caduta nel ghiaione di Valencia che aveva dato il titolo all’amico Nicky Hayden? Era l’ultima gara, Rossi dominava la classe regina da cinque anni. Le sue vittorie erano diventate quasi scontate, ma ci aveva pensato lui stesso a riportarci alla realtà: «Mi sarebbe piaciuto chiudere da imbattibile, ma succede solo nei fumetti». L’anno seguente, l’esplosione di Casey Stoner e della Ducati gommata Bridgestone sembrava aver dissolto del tutto l’aura divina del Dottore.
Poi però la rinascita, la capacità, grazie ai corpo a corpo, di entrare sottopelle prima a Stoner e poi a Lorenzo - «quando già ero vecchio e mi davano per finito», ci ha tenuto a ricordare ieri pomeriggio – nei due sorpassi più epici della sua carriera, quello al Cavatappi di Laguna Seca 2008 e quello all’ultima curva in Catalogna nel 2009. Il decimo titolo, però, è rimasto un miraggio: un po’ per il già citato infortunio del 2010, un po’ per la cattiva decisione di andare in Ducati, un po’ per Marc Marquez che si era messo di traverso nel 2015 – forse anche lui infastidito dal dominio tecnico e psicologico di Rossi a Termas de Río Hondo e ad Assen, fregato in entrambi i casi a fine gara.
Rossi continuava ad abitare le nostre domeniche, magari un po’ più indietro in griglia, eppure per qualcuno era già arrivato il momento di dire basta, come se si trattasse di un animale da sopprimere. Avrebbe dovuto essere chiaro, a quel punto, che senza la competitività dei giorni migliori, le gare per Valentino erano puro piacere primordiale, lo stesso piacere che da ragazzino lo aveva spinto a truccare il motore della sua Apecar a Tavullia – e che di riflesso avrebbe spinto una generazione intera, a metà anni Duemila, a elaborare motori e marmitte di Aerox blu col quarantasei stampato in carena.
Come se non bastasse, ci ha tenuto a ribadirlo anche nella conferenza stampa d’addio, con parole che dovrebbero farci riflettere sul nostro cinismo nei confronti dei fuoriclasse in decadenza: «È dura prendere questa decisione, avrei voluto correre per altri 25 anni ma è arrivato il momento di dire basta. […]È un momento triste e difficile, dire che l’anno prossimo non correrò con una moto. Ho fatto questo per quasi 30 anni e l’anno prossimo la mia vita cambierà da un certo punto di vista».
La dualità della carriera di Rossi, la compresenza di trionfi senza precedenti e di delusioni mai rimosse come quella del 2015, è un lascito prezioso per chi sa accettare la fallacia dei campioni. Se i siparietti post-gara, i sorpassi epici, persino gli spot pubblicitari hanno contribuito a trasformarlo in un’icona globale, e di fatto nell’uomo franchigia della MotoGp, i periodi bui e il senso di ingiustizia hanno cementato per sempre il rapporto coi suoi tifosi più stretti.
Pur di vederlo vincere, i suoi sostenitori avrebbero sempre scelto la strada più comoda. Se non fosse stato per il suo pensiero così fuori dagli schemi, però, Valentino non avrebbe avuto la stessa grandezza. La sua inquietudine, il bisogno di saggiare più e più moto per vedere se avrebbe potuto superare nuovi confini, ci invitano a ragionare in maniera diversa anche in uno sport sostanzialmente individuale come il motociclismo, dove è più facile valutare i protagonisti solo in base al palmarès. Più che la somma dei titoli, allora, dovremmo misurare quanto grandi sono le singole vittorie, qual è la loro storia, qual è il percorso di rinascita che le accompagna. Smetteremmo di farci ossessionare da quel mancato decimo Mondiale e dalla possibilità che Marc Marquez ne vinca più di lui: vale per i tifosi e per i detrattori.