Domani tornano al lavoro alcune franchigie. Ma i dubbi non restano per quella che rimante una stagione dal futuro ancora da definire
Prudenza, timori e dubbi accompagnano i giocatori Nba, che domani si preparano a riprendere l'allenamento individuale nelle strutture dei loro club. Ma solo dove le linee guida per l'emergenza di coronavirus, imposte dalle autorità locali, lo consentono. Quasi due settimane fa, la Nba aveva dato il via libera alle sue franchigie per la riapertura delle infrastrutture per gli allenamenti, in conformità con le disposizioni locali. Un primo passo sul tortuoso percorso di un'ipotetica ripresa della stagione, sospesa l'11 marzo dopo il test positivo di Rudy Gobert (Utah). Ipotetico, perché mentre attualmente sono in fase di studio i vari scenari per il ritorno alle competizioni, auspicato per il mese di luglio. E non è nemmeno esclusa la cancellazione dell'intera stagione qualora l'evoluzione della pandemia e/o le autorità sanitarie lo impongono. Il patron della Nba Adam Silver ha promesso notizie in merito ancora questo mese.
Nel frattempo, mentre in tempi normali i playoff avrebbero dovuto essere in pieno svolgimento, la stagione sta ricominciando a riprendersi in ordine sparso e con il contagocce. In primo luogo, perché al momento sono coinvolte solo circa 15 franchigie, ossia la metà della Nba. Poi perché solo tre di queste franchigie - Denver Nuggets, Portland Trail Blazers, Cleveland Cavaliers - prevedono di riaprire ai giocatori (ceh saranno liberi di scegliere se farvi capo o no) il loro centro di allenamento già domani.
Miami, Orlando e Utah, che sono stati autorizzati ad accogliere il loro personale, hanno per contro deciso di attendere qualche giorno in più, sia per motivi logistici, sia per concedersi un'ulteriore pausa di riflessione. Per questo motivo, Adam Silver e il presidente del sindacato dei giocatori Michele Roberts hanno programmato di incontrare domani i giocatori di Denver, Portland e Cleveland per avere il loro feedback. «Vogliamo assicurarci che le nostre strutture soddisfino tutti i criteri imposti dalla lega e i protocolli delle autorità sanitarie locali e nazionali», spiega il presidente operativo di Utah Dennis Lindsey. «L'obiettivo principale è quello di avere la fiducia dei giocatori e dello staff per tornare sani e salvi nei nostri centri di allenamento», riassume il dirigente della società che aveva dovuto affrontare il test positivo di Donovan Mitchell oltre a quello di Gobert. Il test di Mitchell era stato una grande fonte di preoccupazione per il team, che aveva criticato Mitchell per il suo atteggiamento «spericolato» nello spogliatoio.
I Lakers, ad esempio, stanno negoziando con il municipio di Los Angeles per tornare nel loro centro di El Segundo prima del 15 maggio, data in cui inizierà il graduale deconfinamento di alcune attività in California. Anche se si richiede cautela - un test positivo potrebbe spegnere ogni speranza di un ritorno alla competizione - il desiderio di tornare ai piani sta vincendo i giocatori.
«Quando senti che le attività stanno per riprendere, racconta il giocatore di Milwaukee Pat Connaughton, che non vede l'ora di riaprire il centro di allenamento Bucks. Tra i protocolli messi in atto dalla Nba su consiglio di varie agenzie di salute pubblica, come il Cdc (Centers for Disease Control and Prevention), non più di quattro giocatori alla volta saranno autorizzati ad allenarsi nella loro porzione di campo e potrà tirare contro un unico tabellone e con una sola palla, pulita e disinfettata dopo ogni sessione. I giocatori devono indossare mascherine e guanti, tranne che durante l'allenamento, e farsi prendere la temperatura prima di entrare in palestra. Gli head coach e i loro assistenti non saranno presenti durante queste sessioni, a differenza degli altri membri dello staff che assistono i giocatori, che devono indossare mascherine e guanti e tenere almeno 3,5 m di distanza.
Queste misure non sono accompagnate da tamponi ai giocatori e personale asintomatico, che la Nba ritiene inopportuni, visti i limitati tamponi pubblici disponibili negli Stati Uniti. Per questo motivo, Mark Cuban, proprietario dei Dallas Mavericks, che è stato il primo a spingere per la ripresa della stagione, si rifiuta ancora di riaprire il suo impianto in questo momento: «Non credo che valga la pena di rischiare», si giustifica Cuban.