Igor Nastic: 'La solitudine dell'atleta di endurance, impegnato a macinare chilometri da solo, indagando sui propri punti forti, migliorando quelli deboli'
L’Ironman delle Hawaii ha un fascino intramontabile. L’apertura dell’articolo è la conclusione personale in merito a uno degli sport di resistenza più seguiti e praticati nel vasto panorama internazionale. Pur avendo un rapporto conflittuale con questa prova sportiva, un incontro di pugilato tra amore e odio, per rendere l’idea, alla fine il bilancio è positivo e le cinque partecipazioni al “Mondiale di triathlon” non solo mi hanno arricchito dal profilo sportivo, ma soprattutto da quello umano. Sto persino maturando l’idea di tornarci nel 2020, alla soglia dei 42 anni e approfittando di un congedo lavorativo per... anzianità. Benché il triathlon abbia conosciuto una forte impennata di popolarità e i praticanti siano in continua crescita, per la maggior parte della gente questa gara resta “una cosa da matti”. A dirla tutta, non me ne vogliano gli amici sportivi, un po’ matti bisogna pur essere per nuotare 3,8 km nell’Oceano Pacifico, pedalare 180 km lungo le roventi lingue d’asfalto che tagliano il deserto lavico dell’isola di Big Island, e correre una maratona come forma di elogio allo sforzo estremo. L’Ironman delle Hawaii, nato a Honolulu nel 1977 da una scommessa tra amici su quale delle tre discipline fosse la più “dura”, dà il via allo sport del triathlon. Invece di verificare in tre momenti distinti chi avesse ragione, il marines John Collins suggerì di combinare le tre prove in un’unica gara. Da fonti attendibili pare che anche alle nostre latitudini si sperimentasse la triplice proprio in quegli anni. Durante la prima edizione che ha coinvolto poco più di una decina di atleti, c’è chi si è fermato a mangiare un hamburger e chi, malgrado fosse in testa alla corsa, si è dissetato con una birra buttando la vittoria al vento, che tra l’altro proprio alle Hawaii soffia forte ed è, insieme al caldo, uno dei nemici naturali più temuti dagli atleti. Sarebbe però riduttivo associare il triathlon unicamente all’Ironman, ovvero a un marchio americano passato di recente in mani cinesi. Infatti nel triathlon vi è anche la distanza olimpica che, a partire dalle Olimpiadi di Sydney 2000, regala grandi soddisfazioni allo sport rossocrociato. In questo caso sono 1’500 metri a nuoto, 40 km in bici e 10 km a corsa. La regina indiscussa dell’Ironman è Daniela Ryf, vincitrice delle ultime quattro edizioni delle Hawaii e detentrice del record della gara. Meglio di lei sul numero di vittorie c’è un’altra svizzera: Natascha Badmann, classe 1966, con ben 6 vittorie e ancora attiva sul piano agonistico! Tornando alla distanza olimpica, Nicola Spirig ha vinto l’oro ai Giochi di Londra 2012, l’argento a Rio 2016 ed è la campionessa europea in carica grazie al dominio solitario di Glasgow 2018. Ebbene sì, la Svizzera, almeno in campo femminile, è decisamente la nazione più forte al mondo. Scritta così sembra una semplice considerazione, eppure chi si cimenta in questo sport conosce il valore di queste prestazioni e gli innumerevoli sacrifici che bisogna fare sul piano sportivo, economico e sociale. Si calcoli che per preparare bene un Ironman, un amatore investe circa 15 ore settimanali, fino ad arrivare alle oltre 30 dei professionisti. Se volessimo entrare in ambito economico, per fare un esempio, una bici da triathlon parte dai 6’000 franchi, ma nelle zone cambio sono sempre più frequenti i mezzi che superano agilmente i 10-12’000 franchi. Senza contare alcuni componenti specifici, e tanti altri dettagli che compongono questo mosaico di feticci sportivi. Partecipare alle Hawaii implica, salvo una discutibile lotteria che dà diritto a qualche slot, la qualifica ad una gara del circuito Ironman. Al mondo ve ne sono una quarantina sparsi sui cinque continenti. E le iscrizioni costano una fucilata.
In Svizzera c’è l’Ironman di Zurigo, gara vinta ben nove volte dall’inossidabile Ronnie Schildknecht. Si potrebbe aprire un capitolo anche sulla mezza distanza Ironman, indicata con la lunghezza delle miglia da percorrere, ovvero l’Ironman 70.3. In questo caso l’appuntamento è a Rapperswil. E poi ci sono altri brand concorrenziali al marchio, come ad esempio il Challenge che, nella distanza Ironman, per scostarsi dal brand, la indica come ‘full distance’. In cifre, nella prova del Challenge di Roth ci sono oltre 2’000 iscritti, più di 250’000 spettatori e qualcosa come 7’000 volontari. Un tema poco discusso e ultimamente oggetto di alcune mie riflessioni è la solitudine dell’atleta di endurance. Chi seguisse sui social Daniela Ryf noterebbe che oltre ai momenti glamour tra premi, salotti televisivi e incontri con gli sponsor ci sono tante ore passate a macinare chilometri da sola. Spesso in una stanza di St. Moritz a pedalare sui rulli. Una solitudine voluta, volta a rafforzare il mentale e che permette all’atleta di indagare a fondo i propri punti forti, migliorando al contempo quelli deboli. Attenzione però a emulare questi campioni del triathlon che della loro passione ne hanno fatto una professione ben retribuita. Le prove di resistenza, soprattutto tra gli amatori, possono portare a forme di dipendenza da sforzo, esclusione sociale e settarismo sportivo, oltre a forme di amplificazione del proprio ego. È un tema delicato e scomodo, ma va preso in considerazione con strumenti adeguati e persone formate. Anche chi scrive ha già vissuto periodi da funambolo alla ricerca dell’equilibrio tra una sana attività sportiva e un’ossessione per gli allenamenti e lo sport.