Le Big Tech sono in difficoltà anche perché gli utenti non sempre si comportano come le aziende sperano. Come spesso accade
Dopo anni di crescita apparentemente inarrestabile, il settore delle tecnologie digitali sta affrontando importanti difficoltà finanziarie. Aziende che hanno sempre visto incrementare la propria forza lavoro hanno avviato consistenti piani di riduzione del personale: nelle scorse settimane Amazon ha annunciato che il taglio riguarderà, a livello mondiale, 18mila dipendenti; anche Alphabet (Google), Meta (Facebook, Instagram e WhatsApp) e Microsoft hanno annunciato il licenziamento di migliaia di persone.
Tra i reparti fortemente ridimensionati in quanto poco produttivi, quello degli assistenti vocali come Alexa di Amazon e Google Assistant di Google. Il motivo, stando a quanto riportato dalla stampa specializzata, riguarda la scarsa remuneratività di queste tecnologie che le Big Tech si immaginavano come miniere d’oro.
I prodotti Echo, che incorporano l’assistente vocale Alexa, sono tra gli oggetti più venduti su Amazon, anche grazie al prezzo contenuto. Si tratta però di dispositivi che vengono in genere acquistati a prezzo di costo: l’azienda si aspetta infatti di guadagnare dai servizi che questi dispositivi permettono, similmente a quanto avviene con altri prodotti come gli ebook reader che portano a vendere libri elettronici. Gli utenti, stando ai numeri, hanno rapidamente fatto entrare gli assistenti vocali nelle loro abitudini quotidiane tanto che si realizzano circa un miliardo di interazioni a settimana in tutto il mondo. Il problema però è come vengono utilizzati. Gli utenti chiedono agli assistenti vocali di suonare una canzone, di tenere conto dei minuti per la cottura della pasta, di comunicare loro le previsioni meteo: tutti servizi gratuiti o su cui Amazon ha scarsi interessi, mentre ci si aspettava che gli utenti avrebbero approfittato di servizi più complessi, ad alto valore aggiunto e, per inciso, molto più remunerativi. In altre parole, Amazon sperava che gli utenti avrebbero utilizzato gli assistenti vocali per ordinare del cibo online o per fare acquisti sulla propria piattaforma, non come timer per la cottura della pasta acquistata al supermercato.
Una delle ragioni principali delle limitate interazioni con gli assistenti vocali è spiegata in un paper del 2016, scritto da Ewa Luger e Abigail Sellen ("Like Having a Really Bad PA": The Gulf between User Expectation and Experience of Conversational Agents). Alla base c’è una discrepanza tra le attese degli utenti e le reali capacità di questi strumenti: nelle fasi iniziali di "addomesticamento", molte persone tendono a testare gli assistenti vocali e, molto spesso, si verificano problemi o veri e propri fallimenti. Per esempio, nel paper si ricorda che uno degli utenti intervistati aveva ripetutamente provato a prenotare dei biglietti per il cinema attraverso Siri (assistente vocale di Apple), ma dopo vari tentativi andati a vuoto aveva smesso di chiedere al servizio questo tipo di compiti. Un altro utente ha dichiarato che non farebbe mai telefonare un assistente vocale al proprio posto perché il rischio di fare brutte figure sarebbe troppo elevato. Insomma, gli utenti testano e spesso non si fidano dei dispositivi.
Dal canto loro, gli erogatori dei servizi sono spesso sorpresi dalle modalità con cui gli utenti interagiscono con i loro oggetti e ritengono gli utilizzatori poco attenti e affidabili nel seguire le istruzioni. Si tratta di un tipico problema di design delle tecnologie, come aveva messo in luce Donald Norman in un saggio "classico" del 1988 dal titolo ‘La caffettiera del masochista’: ci troviamo spesso di fronte a oggetti che sono disegnati in maniera astrusa, difficile da comprendere e, in ultima analisi, che scoraggiano gli utenti. Ma è anche un problema tipico di chi inventa un nuovo prodotto e lo immette sul mercato senza capirne esattamente e fino in fondo le potenzialità.
Nella storia delle tecnologie della comunicazione, che è il mio campo di studio, sono moltissimi gli esempi di questo tipo. Ne cito tre.
Thomas Alva Edison alla fine dell’Ottocento introdusse il fonografo, ovvero la prima macchina per registrare e riprodurre i suoni. Per lui doveva essere utilizzato per dettare lettere e soprattutto per registrare telefonate dal momento che, a quell’epoca e in parte ancora oggi, il grande problema del telefono per usi commerciali è quello di non lasciare traccia delle conversazioni. Nel momento in cui il suo sistema cominciò a essere usato in locali pubblici per ascoltare brani di musica e per ballare, la reazione di Edison fu furiosa: "Si accorgeranno, ma troppo tardi, del loro errore fatale. La macchina a soldi è stata concepita per distruggere l’immagine del fonografo nell’opinione pubblica. Facendolo apparire come niente altro che un semplice giocattolo, nessuno comprenderà l’importanza di questa macchina per gli uomini d’affari" (lo riporta Patrice Flichy in ‘Storia della comunicazione moderna’). Salvo poi cambiare ben presto idea, accorgendosi di quanto il nuovo modo di vedere il fonografo – trasformato di fatto in juke box – fosse remunerativo.
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Thomas Edison con il suo fonografo
Anche un altro inventore-imprenditore "mitico" commise un "errore" simile: Guglielmo Marconi ideò la telegrafia e la telefonia senza fili per permettere a due persone in movimento di comunicare. Marconi fu infatti il padre di quella che oggi chiamiamo telefonia mobile, mentre osteggiò un altro uso che nel frattempo alcune persone facevano del suo strumento: invece di scambiarsi messaggi, alcune persone restavano infatti in ascolto dei messaggi altrui, origliando di fatto le conversazioni. Questi utenti vennero duramente attaccati da Marconi, che non si rese conto di un business altrettanto promettente: quella che noi oggi chiameremmo radio, in cui più persone possono ascoltare attraverso le onde hertziane un programma. Anzi, come dichiarò lo stesso Marconi in una sua biografia, «Io mi sono "arrabattato" per molti anni nell’intento di limitare la ricezione dei messaggi alla sola stazione cui erano diretti e non mi sono accorto di avere in mano una fortuna di inestimabile valore: la radiodiffusione. La possibilità di ricevere contemporaneamente in molte località un’unica trasmissione fu considerata per molti anni un gravissimo difetto della radio» (da Luigi Solari, ‘Sui mari e sui continenti con le onde elettriche’). Un terzo e ultimo esempio di incomprensione non coinvolge il nome di un grande inventore, ma ha a che fare con un servizio altrettanto importante: gli short message service (abbreviato e conosciuto come Sms). I servizi di messaggistica tra telefoni mobili, antenati di WhatsApp si potrebbe dire, all’inizio vennero immaginati dalle compagnie telefoniche in maniera molto diversa: sarebbero dovuti servire per mandare messaggi speciali agli utenti oppure per avvertire un abbonato che un altro utente lo stava cercando. In realtà, ben presto, alcuni abbonati "smanettoni" capirono che in questo canale si potevano scambiare gratuitamente brevi messaggi scritti, cosa a cui le compagnie telefoniche non avevano pensato. Le compagnie corsero però velocemente al riparo e cominciarono a tariffare gli Sms, che oltretutto furono una delle ragioni dell’esplosione del telefono mobile tra i giovani negli anni ’90 del Novecento (raccontiamo questa storia io e Paolo Magaudda in ‘Media digitali. La storia, i contesti sociali, le narrazioni’).
Tre brevi storie, la stessa morale: chi propone un servizio o inventa una tecnologia spesso non è in grado di comprenderne fino in fondo le potenzialità. È accecata o accecato da un paradigma, da un quadro di riferimento che fa vedere la tecnologia sotto un’unica lente, mentre la stessa ha molte sfaccettature. Esattamente come è successo nel caso di Amazon e dell’assistente vocale Alexa.
Gli studi sulla scienza e la tecnologia (abbreviati in STS) si sono a lungo occupati del rapporto tra esseri umani e tecnologie e hanno introdotto alcuni concetti utili a spiegare meglio questa relazione e, nel nostro caso, a farci capire meglio la storia degli assistenti vocali. In primo luogo, le teorie dell’attore-rete (ANT), e in particolare il compianto Bruno Latour, hanno sostenuto che gli oggetti contengono un preciso programma d’azione o "script" assegnato loro da costruttori, tecnici ed erogatori dei servizi. Questo script imporrebbe un determinato utilizzo della tecnologia che, però, viene sovente modificato dagli utenti, i quali ri-scrivono e ri-usano gli strumenti con fini e scopi spesso differenti da quelli previsti. In sostanza, quanto abbiamo raccontato nel caso degli assistenti vocali (ma anche di fonografo, telegrafo senza fili e Sms) è un fenomeno tipico che coinvolge tutte le tecnologie, in una sorta di contrattazione tra chi fabbrica o propone la tecnologia e il servizio e chi li usa. In secondo luogo, gli assistenti vocali sono tecnologie relativamente nuove e quindi ancora in formazione. Gli STS, e in particolare quel ramo chiamato "costruzione sociale delle tecnologie", dicono in proposito che gli artefatti tecnologici nuovi sono flessibili e, specie in questa fase iniziale della loro vita, possono assumere varie funzioni che per lungo tempo coesistono, fino a quando una funzione si impone sulle altre. Nel caso degli assistenti vocali, si assiste a una evidente lotta tra diversi gruppi sociali – in particolare gli ingegneri delle Big Tech e gli utenti – per imporre un certo significato e certi usi: i primi vorrebbero che gli utenti li usassero spendendo il più possibile; i secondi scelgono invece di usarli per compiti "banali" e li trattano anche in maniera infantile, semplicistica. Da questa nuvola di usi e aspettative nascerà probabilmente l’assistente vocale del futuro, più stabile, un oggetto meglio riconosciuto e con proprie funzioni definite nella vita delle persone. Ma occorre tempo e, come insegna sempre la storia delle tecnologie, questo processo può anche fallire e gli assistenti vocali potrebbero non fare parte delle abitudini quotidiani della popolazione mondiale in futuro.
Gli assistenti vocali sono tecnologie che da pochi anni abbiamo deciso di sperimentare, uno tra i tanti dispositivi che popolano le nostre abitazioni. Ma sono ancora strumenti immaturi, sia dal punto di vista tecnologico (e il numero di errori commessi da questi assistenti salta immediatamente all’occhio per chi li usa), sia sotto il profilo del loro "posto nel mondo". Ci vuole tempo perché gli utenti li incorporino nella loro realtà quotidiana, perché individuino quella funzione per cui saranno indispensabili oppure decidano di dismetterli. La sconfitta non è contemplata in campo tecnologico, ma in realtà è molto più frequente della vittoria, specie con i ritmi serrati dell’innovazione digitale. Ma una morale la si può abbozzare: le Big Tech non si concedono tempo per far maturare le loro idee e, se avvertono una scarsa remuneratività, passano alla prossima grande innovazione (non a caso uno dei mantra è the next big thing). Gli utenti, dal canto loro, non possono continuamente riconfigurare le loro abitudini d’uso, non possono imparare nuovi gesti o adottare nuove pratiche d’uso ogni giorno. Urge un bilanciamento, forse un rallentamento delle Big Tech stesse, che però contrasterebbe con l’ideologia californiana dell’innovazione costante. La crisi attuale di queste compagnie potrebbe essere dovuta anche a questo: il voler imporre ai propri utenti il modo migliore di usare una tecnologia può risultare fastidioso e non lascia spazio alla fantasia degli stessi utilizzatori, che già in passato ha prodotto idee anche remunerative.
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