EDUCAZIONE

Siamo liberi di informarci?

L’educazione ai media è l’antidoto alla disinformazione

Immersi nelle informazioni

Mai come oggi il genere umano ha avuto a disposizione tante informazioni. Basta un click – anzi, basta aprire lo smartphone per aggiornarsi o per trovare risposte. La tecnologia offre opportunità, ma siamo pronti a coglierle o rischiamo di smarrirci? L’educazione ai media, al reperimento e alla comprensione delle informazioni (in gergo, information literacy), è fondamentale per una cittadinanza attiva e consapevole.

Non solo oggi possiamo cercare ricette, informazioni di viaggio, dati borsistici o altro in pochi click; le informazioni ci raggiungono ovunque con notifiche e messaggi anche quando stiamo facendo altro. Non navighiamo in un mare di informazioni: ne siamo sommersi, le respiriamo come se fossero aria – tanto che quando siamo disconnessi dobbiamo riabituarci all’apparente silenzio del mondo (o all’assenza di rumore di fondo?).

Figli di una generazione pre-digitale, abbiamo l’istinto di cibarci compulsivamente di notizie, meme e messaggi (ricordate L’Obeso di Gaber?). Oggi godiamo di immensa libertà di informazione – ma è davvero così? Sappiamo sfruttare queste opportunità? Ci sono trappole nascoste? Siamo in grado di regolare la nostra dieta informativa in maniera sana e sostenibile, con informazioni affidabili e importanti?

Queste domande sono fondamentali non solo per il benessere e la crescita personale, ma anche per la nostra democrazia (come votiamo se abbiamo informazioni scarse, incomplete o false?) e per la solidarietà sociale (come può essere coesa una società in cui ognuno riceve informazioni contrarie a quelle del vicino?).

Le famigerate fake news sono un aspetto del problema, ma qui vorrei allargare lo sguardo al nostro modo di informarci in rete e a come possiamo educarci a farlo con maggiore consapevolezza.

Un panorama immenso e complesso

Approssimativamente internet è popolata da 5 miliardi di utenti e ospita 2 miliardi di siti web. Su YouTube ogni ora vengono pubblicate 300 ore di video e vengono visti 3 miliardi di video al giorno. Su Instagram compaiono ogni giorno 95 milioni di nuovi post.

Potrei continuare, ma questi dati sono sufficienti per documentare tre cose: il web ospita una quantità inimmaginabile di contenuti; questi contenuti sono troppi per essere controllati sia con occhi umani sia con algoritmi; la maggior parte dei contenuti viene pubblicata da utenti "qualsiasi" e non da persone o organizzazioni esperte come istituzioni, giornali, enti di ricerca, ecc.

Questa situazione chiaramente non rappresenta sempre un problema: se devo sostituire lo specchietto dell’auto il video di un altro utente che lo ha già fatto funziona meglio della guida della casa automobilistica; e questo vale anche se cerco una ricetta o un consiglio di viaggio. Sappiamo però che su temi delicati e complessi – dai vaccini al clima alle migrazioni ecc. – lo scenario si complica.

Attenzione

Ma andiamo oltre. I dati mostrano che sul web abbiamo un’attenzione molto breve. Solo pochi utenti stanno su una pagina web più di 30 secondi, mentre la maggior parte clicca altrove spesso entro 10 secondi. È facile intuire che anche se ci trovassimo davanti a informazioni di qualità, difficilmente le coglieremmo.

Cosa ci succede? Stiamo diventando pigri e incapaci di concentrazione? Le tecnologie ci rendono più stupidi? La ricerca non ha una risposta definitiva su questo, ma è facile vedere come i social media siano progettati proprio per favorire questo tipo di navigazione: molti click o scorrimenti in breve tempo, con la nostra attenzione che salta continuamente da un post all’altro.

Il motivo è commerciale: la maggior parte dei social (e sicuramente Instagram, Facebook e TikTok) realizzano guadagni enormi mostrandoci pubblicità personalizzate. Per farlo devono avere un "profilo digitale" di ognuno di noi e il profilo si nutre dei nostri click: ogni azione online, infatti, è una scelta (scelgo di leggere un post sul basket, di condividere la foto di un tucano, di scrivere a un dato amico, ecc.) e parla di noi. Più click, più dati, più pubblicità mirate. Più click, più tempo speso sul social, più opportunità di mostrarci inserzioni pubblicitarie.

Dunque non solo ci troviamo in un mare di informazioni che ci cadono in testa come frutti maturi e che quindi trattiamo come un bene di scarso valore, ma siamo anche in un sistema commerciale che trae beneficio dalla nostra pigrizia e disattenzione.

Il potere di Google

Sappiamo anche che circa il 70% delle navigazioni in rete inizia con un motore di ricerca, nel 95% dei casi con Google. Addirittura, circa il 50% delle ricerche effettuate su Google non viene seguita da un click: gli utenti (cioè noi) trovano la risposta direttamente su Google o leggendo solo i titoletti dei risultati.

Google offre un ottimo servizio e la rete, popolata da una quantità esagerata e sempre crescente di contenuti, sarebbe molto meno utile senza i motori di ricerca. Tuttavia di fatto riponiamo la nostra fiducia in un algoritmo non solo per trovare i risultati delle partite, ma anche per rispondere a domande che abbiamo timore o vergogna di porre ad altre persone. L’algoritmo fa un ottimo lavoro ma, a differenza di una persona, non è in grado di guardarci negli occhi e di desiderare il nostro bene.

Viviamo in una bolla?

Sia i social sia Google usano i dati di un nostro profilo digitale per selezionare i contenuti da offrici. Significa che se siamo vegani vedremo più facilmente contenuti sul veganesimo, o postati o "likati" da utenti vegani. Lo stesso vale per età, nazionalità, orientamento politico, ecc. Il risultato è un servizio informativo molto personalizzato: questo ci fa spesso risparmiare tempo e sentire a nostro agio.

A ben pensarci però, l’uso intensivo delle nostre "preferenze" limita di molto l’opportunità di imbattersi in contenuti "diversi" o semplicemente "altri" rispetto a noi. È come se fossimo chiusi in una che ci dà l’impressione di vivere in un mondo che ci dà sempre ragione perché siamo in maggioranza. Molti fenomeni di conflittualità e di polarizzazione nel discorso sociale vengono esacerbati da questa situazione.

Possiamo allora fidarci delle informazioni in rete? Non possiamo dare una risposta si/no. Esiste però un rischio perverso, pericoloso in particolare per i giovani: che la consapevolezza di questi meccanismi e del rischio di incontrare informazioni false o malevole ci spinga a una fondamentale disillusione: tutti cercano di fregarci, e conoscere la realtà è impossibile.

È possibile imparare a informarsi?

La buona notizia è che non siamo per forza incatenati a questo sistema, ma è possibile imparare a informarsi, trovando ognuno il suo stile.

In primo luogo, possiamo cercare di essere meno pigri e decidere di informarci in maniera proattiva, anche se richiede più tempo e fatica. Meglio però avere meno buone informazioni che molte informazioni di scarsa qualità.

Dobbiamo poi sviluppare alcune competenze. Il modello Big6 presenta le competenze chiave di information literacy, cioè del sapersi informare: si inizia col formulare delle buone domande (invece che lasciare che sia il nostro social a decidere cosa dovrebbe interessarci), si prosegue con lo scegliere le fonti migliori (crearsi una mappa di fonti affidabili è il lavoro di una vita), per poi imparare a leggere criticamente testi o video o altro.

Si tratta poi di allenare il pensiero critico, e quindi di interrogare le informazioni che troviamo: chi le ha scritte? Chi le ha pubblicate? Perché? Sono passate da un processo di verifica? Come si collegano alle informazioni che trovo in altre fonti? Per inciso, non si tratta di "competenze informatiche", quanto di avere la pazienza di conoscere il web ed esplorarlo magari insieme ai nostri ragazzi.

Infine, possiamo cercare canali alternativi, ad esempio usare motori di ricerca diversi da Google, o decidere di seguire le notizie su canali editoriali di qualità anziché sui social. Per questo motivo è fondamentale creare condizioni che permettano anche ai media locali o regionali, sfiancati da anni di emorragia pubblicitaria e non per forza "milionari" (in particolare in Ticino), di svolgere il proprio lavoro senza rischiare di essere spazzati via dalle grandi piattaforme globali. La votazione che ci aspetta tra pochi giorni ci chiama a riflettere sul sistema mediale che vogliamo.

Il compito di chi educa

In questo lavoro educativo la scuola gioca un grande ruolo: deve continuare ad avere il coraggio di portare in classe il digitale per parlarne, e accompagnare i ragazzi anche nel confronto con l’attualità e i social. Anche i media possono fare la differenza, se si daranno come obiettivo non solo quello di "conquistare" il pubblico giovane, ma di educarlo a gustare un’informazione di qualità. Le famiglie sono anche in prima linea, perché è li che i giovani "spiano" i più grandi e respirano il loro modo di informarsi e di capire il mondo.

Si tratta in fondo di imparare a fermarsi a pensare, di uscire dalla logica del "tutto subito gratis" e di considerare che trovare la verità (o comunque un’informazione affidabile, che ci offra una base solida per decidere e agire) richiede lavoro e tempo.

Rubrica creata in collaborazione con il DFA (Dipartimento formazione e apprendimento)