La débâcle degli Azzurri ha confermato le enormi difficoltà del calcio italiano, che nascono (anche) dalla politica di (non) valorizzazione dei giovani
I giocatori italiani (e il pubblico dello stadio Barbera) ammutoliti, increduli, costernati; Jorginho che ripensa – assicurando che lo farà per tutta la vita – ai due rigori sbagliati contro la Svizzera, uno nello 0-0 del St. Jakob e l’altro nell’1-1 di Roma; Roberto Mancini che parla della più grande delusione a livello personale e mette in dubbio il suo futuro sulla panchina azzurra. All’apparenza una sorta di mea culpa collettivo dei principali "colpevoli" della mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali per la seconda volta di fila, come non era mai accaduto prima. A ben guardare però, il fallimento non si è consumato a Palermo contro la Macedonia del Nord e nemmeno in tutte le altre partite delle qualificazioni per il Qatar, compresi i pareggi con i rossocrociati e quelli contro Bulgaria (1-1) e Irlanda del Nord (0-0). Così come le colpe non possono essere (tutte) dei vari Jorginho, Donnarumma, Chiellini, Verratti, Insigne, Immobile e compagni. E nemmeno delle scelte di Mancini.
No, il problema stavolta sta ben più in profondità di ciò che la superficie di un campo da calcio può mostrare. Certo, sarebbero forse bastati un errore in meno dal dischetto, una chiusura in più riuscita, un assist meglio calibrato, una parata al momento giusto, per evitare un’altra onta dopo quella inferta dalla Svezia quattro anni or sono e mascherare, un po’ come capitato con la vittoria all’ultimo Europeo, la realtà. Ma sarebbe appunto stato come mettere ulteriori fette di salame sugli occhi, per non vedere ciò che è chiaro: il calcio italiano è in crisi e lo è ormai da tempo, tanto a livello di Nazionale quanto di club.
Lo dicono in primis i risultati. Dalla vittoria della Coppa del mondo del 2006 in Germania, l’Italia non è più andata oltre la fase a gironi a una rassegna iridata, centrando un solo successo nelle sei partite che ha disputato. Più precisamente il 2-1 rifilato all’Inghilterra a Brasile 2014, seguito però da due sconfitte 1-0 contro Costa Rica e Uruguay e la conseguente eliminazione come terza di gruppo. Peggio ancora era andata nel 2010 in Sudafrica, con l’ultimo posto frutto dei pareggi 1-1 con Paraguay e Nuova Zelanda e del ko 3-2 contro la Slovacchia. Allargando il discorso anche agli Europei, tolta la cavalcata vincente della scorsa estate, solo nel 2012 in Polonia e Ucraina gli Azzurri avevano convinto raggiungendo l’atto conclusivo, nel quale si erano però inchinati senza appello alla Spagna (4-0). Sempre contro gli iberici ma nei quarti si era invece chiuso il percorso a Euro 2008 (l’edizione in Svizzera e Austria), mentre nel 2016 in Francia era stata la Germania a fermare, sempre nei quarti, Pellè (già…) e compagni.
Quanto ai club, eloquente come nelle ultime due edizioni della Champions League (compresa quella in corso) nemmeno una formazione italiana sia riuscita a qualificarsi per i quarti di finale, situazione questa che non si verificava per due anni fila dall’inizio degli anni 2000 (stagioni 2000/2001 e 2001/2002). Di più: è dal trionfo dell’Inter di Mourinho nel 2010 che le società della vicina Penisola non alzano al cielo un trofeo continentale e negli anni successivi la Serie A è il campionato, tra le cinque principali leghe europee (Premier League, Liga, Bundesliga e Ligue 1), che ha visto il minor numero di squadre approdare tra le migliori otto d’Europa (in cinque occasioni la Juventus, poi con una Milan, Inter, Roma e Atalanta, l’ultima a riuscirci nell’annata 2019/2020).
Numeri che parlano da soli e che si aggiungono all’impressione di un calcio italiano che non ha saputo stare al passo coi tempi, rimasto ancorato a schemi del passato e per questo appunto sorpassato dagli eventi. Tanto in campo – salvo rare eccezioni, anche se rappresentate da club che alla fine d’indigeno rischiano di avere solo il magazziniere o da un’Italia manciniana capace di incantare con il suo gioco soprattutto nella prima parte di un Europeo che a questo punto ha certamente rappresentato l’eccezione alla regola – quanto fuori, inteso come sistema, dal vertice (dirigenti della Figc e giù fino a quelli delle società) alla base. Ed è forse questo l’aspetto centrale e la chiave di volta per una rinascita che non può che passare, attraverso un processo che richiederà del tempo, dai giovani.
Già, quei talenti sopraffini che sembrano non esistere più in Italia, come se di colpo i vari Totti, Del Piero, Cannavaro, Nesta, Buffon (giusto per non andare troppo indietro nel tempo e citare forse l’ultima generazione d’oro del calcio azzurro) avessero smesso di nascere. Possibile, visto che stiamo parlando di campioni unici e irripetibili, ma non abbastanza per giustificare la mediocrità di chi arriva oggi in Nazionale. No, i talenti nascono e continueranno a nascere anche su suolo italiano, ma bisogna avere la capacità e i mezzi per coltivarli, puntando sulla formazione fatta come si deve, che sappia se possibile accompagnare i giovani ben oltre lo spogliatoio e il terreno da gioco. E poi bisogna avere il coraggio di dar loro fiducia nelle prime squadre, anche a costo di sacrificare un pizzico di competitività nell’immediato, ma per guadagnarne su più fronti (Nazionale compresa, anzi in primis) sul lungo periodo. Anche in questo caso i dati sono eloquenti: oggi in media nelle rose di Serie A ci sono appena 2,7 giocatori U21 italiani a squadra. E in campo dal primo minuto ne va meno di uno a partita (lo 0,43 per cento), mentre nell’80 per cento dei casi entrano oltre il 70’.
Numeri e discorsi che in parte (se non interamente) erano già stati tirati in ballo poco più di quattro anni or sono dopo l’esclusione dell’Italia dal Mondiale russo, a cui non sono evidentemente seguiti passi concreti nella giusta direzione. Con la conseguente esclusione dalla rassegna iridata in Qatar e il rischio di ritrovarsi tra quattro anni ad aver paura di non riuscire ad accedere nemmeno a una fase finale della Coppa del mondo (prevista in Stati Uniti, Messico e Canada) che da 32 passerà a ben 48 squadre. Stiamo esagerando? Forse sì. O forse no.